Da Il Mattino del 28/03/2003
Originale su http://ilmattino.caltanet.it/hermes/20030328/NAZIONALE/3/UNO.htm

Bassora in agonia, l’ora della fuga

Popolazione stremata senza cibo né acqua: la rivolta contro il regime non c’è stata

di Vittorio Dell'Uva

BASSORA - La loro sola difesa è uno straccio da cucina issato in cima ad un bastone. Gli affidano la vita seguendolo quasi fosse il simulacro del santo protettore che non hanno. È la processione dei disperati che attraversa il ponte di Bassora, seminascosto dalla nebbia color sabbia provocata dal vento del deserto. Non hanno motivo per arrendersi ma innalzano lo stesso la bandiera bianca, come se nel Sud dell’Iraq non ci fosse più nessuno che non senta di doversi considerare prigioniero. Fuggono, lasciandosi alle spalle tutto ciò che hanno, senza intravvedere una sola speranza. Tremila formiche della paura, in fila sulla strada che i carri armati dividono come un guard-rail. Seguono altri diecimila che hanno trovato lo stesso coraggio nella notte. Nelle loro mani non c’è un pacco, una sporta, o un sacchetto di plastica che possa dimostrare che non hanno pensato esclusivamente alla vita. I lunghi drappi neri indossati dalle donne lasciano solo una fessura aperta per gli occhi della furia. Bambini che fanno fatica a seguire il passo degli adulti saltellano sul fango implorando di fermarsi. Gli uomini, abbiano o meno indossato in vita loro una divisa, si sentono sconfitti. Pronti ad umiliarsi anche per un bicchiere d’acqua.
«Shukran, shukran» è il grazie che ripete all’infinito Ahmed, un portuale che cerca di baciare la mano che gli tende una bottiglietta e una arancia. Lo aspettano quaranta chilometri a piedi con i sette figli che gli stanno attaccati alla camicia e per i quali vuole notti senza più bombe ad Umm Qasr, città «liberata» in cui ancora vive la madre.
La sua è una delle voci di dentro nella tragedia di Bassora. Incompiuta e forse incompresa. «Ci sono troppi morti per contarli tutti» sussurra Hassan, un vecchio combattente che durante la guerra con l’Iran ci ha rimesso una gamba e si trascina con l’aiuto dei nipoti. Parla di amici che mai più potrà rivedere. Come Najef che viveva nel complesso della Southern Oil Company di cui non restano che le macerie tra le quali nessuno è andato a scavare. «Cinquanta case distrutte e 75 impiegati sepolti» spiegano a gesti altri fuggiaschi appena superato lo sbarramento creato dai «topi nel deserto» britannici, che fanno ruotare continuamente la torretta dei loro carri come se quella folla inerme potesse rappresentare un pericolo. Il massacro si sarebbe consumato un paio di giorni fa. I miliziani di Saddam si erano acquartierati nel recinto della compagnia petrolifera per meglio difendere la città da una postazione che ritenevano inespugnabile. Bombe d’aereo e artiglieria pesante non hanno spazzato via soltanto loro.
Molti sono i gironi dell’inferno di Bassora in cui la tenaglia della guerra schiaccia i civili. Non c’è stata la rivolta sciita contro il regime di cui giorni fa si diceva, ma il fuoco iracheno ha ucciso, non meno di quello americano, gli abitanti senza difese. «Ci si trova in mezzo al fuoco e agli spari» è la testimonianza comune. È fuga dalla città per la sopravvivenza. Quale che sia. Le ultime scorte di cibo sono andate esaurite. L’acqua è inquinata o manca del tutto.
«Bassora è come Belfast» è il commento che arriva da uno dei comandanti delle forze britanniche e che lascia poche speranze a quanti non trovano una via che conduca oltre le mura della città. Nelle previsioni del Pentagono, Bassora non avrebbe mai dovuto trasformarsi in una trappola ma fare da test della debolezza dell’intero regime. Eppure alle sue porte ci sono ancora altri disperati che bussano. Al check-point degli inglesi c’è un’altra folla che preme. Implora, impreca, naturalmente obbedisce. Si piega all’ordine dell’ufficiale che grida a tutti di stare seduti. A centinaia vogliono superare quel ponte e ricongiungersi alle proprie famiglie di cui da troppo tempo non hanno notizie. Qualcuno aspetta da almeno tre giorni di poter finalmente passare. La guerra, dicono tutti, li ha colpiti due volte. Chi supera il varco si avvia verso il ponte recitando sommessamente preghiere. Lo sfogo di uno dei portuali di Umm Qasr, stanco di attendere di congiungersi alla famiglia che aveva portato a Bassora «al sicuro», raccoglie molti consensi: «Che c’entriamo noi con Saddam? Il suo è un regime, ma le bombe che cadono in questa guerra sono oppressione. Vorrei proprio sapere che cosa abbiamo mai fatto per soffrire tanto, non è così che si dà la libertà ad un popolo». L’assedio degli inglesi, e la guerriglia che potrebbe essere di lunga durata, tolgono il respiro al milione e mezzo di abitanti della città. La fase dello scontro diretto sul campo si è appena conclusa con l’ultima battaglia che gli iracheni hanno perduto forse ancora prima che cominciasse. La 51ma divisione corazzata ad ovest di Bassora, da giorni sotto un martellante bombardamento, ha provato un’azione di forza che il comando alleato non ha esitato a definire «suicida». Un centinaio di carri armati T54 si sono mossi nella notte puntando in direzione della penisola di Faw, primo lembo di terra conquistato dagli angloamericani, per mettere «in sicurezza» i terminali del petrolio che in futuro possono tornare molto utili a chi sarà chiamato a gestire il potere. Non hanno percorso che pochi chilometri. I cacciabombardieri levatisi in volo li hanno inchiodati al terreno. L’artiglieria pesante ne ha fermato la corsa. Quasi tutti i tank sono stati distrutti. Nulla si sa del destino dei loro equipaggi. La revanche irachena nel sud più estremo si è dissolta tra i lampi dell’esplosione. L’alleanza può gridare vittoria. Molto più difficile sarà conquistare il consenso.

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