Da Il Sole 24 Ore del 19/02/2003

L'Irak, Paese delle generazioni perdute

di Alberto Negri

BAGHDAD - Che cos'è l'Irak oggi? «Su 25 milioni di iracheni 16 dipendono completamente per la sopravvivenza dalle razioni distribuite dal Governo e dalle importazioni controllate dal comitato sanzioni dell'Onu: è come se ci trovassimo in un immenso campo profughi», dice Roger Normand, ebreo con passaporto americano, economista alla Columbia School of International Affairs, che da 12 anni viene qui costantemente a monitorare lo stato sociale ed economico dell'Irak. L'Irak è il Paese delle «generazioni perdute». Negli anni Ottanta i giovani furono mandati al fronte a versare il loro sangue nella guerra con l'Iran, negli anni Novanta sono cresciuti nella povertà e nell'isolamento. Un'intera classe sociale, la borghesia irachena, ridotta sul lastrico, è stata cancellata. Prosciugata oltre che dall'embargo dalla fuga dei cervelli: se ne sono andati all'estero in due milioni tra ingegneri, medici, professori d'università, insegnanti, quadri tecnici, uomini d'affari. L'arco trionfale all'ingresso dell'Alwiya Club segnala la stagione affluente della borghesia. La jet society di Baghdad veniva qui per sfidarsi al tavolo verde o sul court del tennis, alla feste scorrevano champagne e gossip piccanti sugli ultimi flirt di una società-bene in perenne movimento tra Baghdad, Beirut, Parigi e Londra. Follie e stravaganze in questi anni di embargo invece ha potuto esibirle soltanto Uday, figlio maggiore di Saddam, che all'ultimo referendum andò a votare su una Rolls Royce Corniche tutta rosa. In questo posto affollato oggi soltanto dai ricordi si presenta Ghazawan al-Mukhtar, elegante gentleman sulla sessantina. «Il Club venne fondato quando, sotto il mandato della Società delle Nazioni, i padroni dell'Irak erano gli inglesi: per diventare socio all'Alwiya dovevi appartenere all'upper class di Baghdad». L'ingegner al-Mukhtar, laureato a Berkeley, fa capire, senza dirlo naturalmente, che il clan di Tikrit qui un tempo non avrebbe mai messo piede. Al-Mukhtar aveva un'azienda farmaceutica: per le sanzioni i suoi conti bancari in Gran Bretagna sono congelati dal '90 e sopravvive con i prestiti del fratello che vive a Londra: «Vengo qui per non starmene a casa: ho una figlia al quinto anno di medicina mentre il maschio ha appena finito le superiori. Con le tasche vuote posso permettermi di tramandare ai miei figli soltanto ricordi». Eppure per l'Irak di oggi anche le fatue memorie dell'Alwiya Club sono un lusso. Un quarto dei ragazzi tra i 6 e gli 11 anni ha abbandonato la scuola. È la generazione hissar, la «generazione dell'embargo». Bambini di strada mendicano agli incroci, scavano tra i rifiuti in cerca di qualcosa da mangiare o da riciclare; ragazzini costretti a rubare o a fare i lustrascarpe, a vendere bottiglie di benzina, sigarette e scatole di latte in polvere. I loro genitori hanno già liquidato tutto, dai mobili, ai televisori, ai monili di famiglia, a Rashid Street dove ogni settimana si celebra il funerale della classe media. Servono soldi per comprare cibo o medicine alla borsa nera. A otto anni Alaa Mohammed passa le giornate sul marciapiede vendendo sacchetti di plastica: «Non vado a scuola: qui guadagno 500 dinari al giorno (venti centesimi di euro, ndr) ma - aggiunge sospettoso - li do tutti a mia madre». A metà degli anni Ottanta l'Irak aveva un tasso di alfabetizzazione del '90%, oggi è crollato al 57%: qui c'erano tra le migliori università del mondo arabo, che rigurgitavano di studenti stranieri, adesso i libri di testo più recenti si fermano a 12 anni fa. L'impatto delle sanzioni è difficilmente quantificabile ed è stato strumentalizzato da Saddam Hussein a fini di propaganda interna e internazionale. Ma tutti gli osservatori indipendenti e i funzionari delle agenzie delle Nazioni Unite concordano su un punto: invece di fiaccare il regime l'embargo lo ha rafforzato e le principali vittime dei suoi effetti sono le fasce più deboli della popolazione civile. Vecchi, donne e bambini. Mentre la corruzione dilaga e gli impiegati si arrangiano con doppi e tripli lavori, mentre la classe media scompare e i fellahin fanno la fame, contrabbando ed economia parallela consentono a Saddam di prosperare e distribuire i dividendi nel clan dei fedelissimi che lo sostengono. La grande massa degli iracheni vive in condizioni igieniche, economiche, alimentari ai limiti della sussistenza. La moneta è carta straccia, la mortalità infantile è in continuo aumento, il 45% dei bambini diserta la scuola elementare, i raccolti – in assenza di fertilizzanti e di pesticidi – si assottigliano, la mancanza di pezzi di ricambio paralizza industrie e mezzi di trasporto. La strada Baghdad-Bassora, specchio del degrado nazionale, è un gigantesco cimitero industriale. Ovunque macchinari che arrugginiscono al sole: motori, tubi, container, trattori, carri armati, lamiere, vagoni ferroviari, montagne di pneumatici. Ma non era questa una sorta di Prussia del Medio Oriente, l'unico Paese arabo dotato di un apparato militare e industriale di rispetto? L'entrata in vigore nel 1996 della risoluzione 986 dell'Onu ("petrolio in cambio di cibo"), che consente all'Irak di esportare greggio e importare beni umanitari, è servita solo in parte a ricostruire il Paese. In poco più di sei anni Baghdad ha venduto petrolio per 63 miliardi di dollari ma ne ha incassati per la sussistenza alimentare e le importazioni industriali molti di meno: «Il 30% del totale è destinato al pagamento dei danni di guerra al Kuwait, all'Arabia Saudita, a Israele e alle società straniere che lavoravano in Irak e Kuwait; un altro 3% serve a finanziare le operazioni dell'Onu nel paese. Restano 1,3 miliardi di dollari a semestre: non sono neppure sufficienti a garantire un livello minimo di sopravvivenza», spiega l'irlandese Denis Halliday che fino al '98 è stato capo della missione oil for food. Dell'embargo, l'hissar, Alaa Mohammed non sa nulla ma conosce questo ritornello che sente da quando è nato: «La colpa di tutto è degli americani, dell'embargo». Isolamento e miseria hanno tramortito questo popolo, la propaganda del regime ha fatto il resto: «Una parola come democrazia che per noi ha un valore qui viene identificata con l'Occidente, con le sanzioni e la povertà» dice l'americano Normand. Alaa Mohammed, seduto sul marciapiede, è meno sofisticato ma più diretto: «Come sei arrivato qui?», domanda. «Con l'aereo». Volta la testa di scatto, diffidente. Sopra questo pezzo di cielo di Baghdad, oscurato dall'embargo, lui gli aerei non li ha mai visti volare.

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