Da La Repubblica del 26/03/2003
Originale su http://www.repubblica.it/online/esteri/iraqattaccotto/prezzo/prezzo.html
Quale prezzo per la vittoria
di Vittorio Zucconi
WASHINGTON - Il sesto giorno fu il giorno della sabbia e del dilemma: espugnare Bagdad, ma a quale prezzo? Anche di un attacco nucleare, se Saddam usasse la bomba chimica? Il Pentagono non lo nega. E nel giorno del ghibli - che ha nascosto per qualche ora la guerra teletrasmessa, e inghiotte tecnologie, laser, satelliti e ingranaggi - ricompare lo spettro dell'Armageddon reciproca e si deve alzare George Bush, il condottiero finora un po' assente. Deve farlo per chiedere la prima rata di miliardi per finanziare la guerra - 74,7 miliardi - per rincuorare i suoi soldati che si avvicinano al cuore di tenebra di questo viaggio, la capitale. "Stiamo avanzando con sicurezza", la "nostra coalizione è compatta", "stiamo combattendo per rendere il mondo più sicuro, libero e pacifico", naturalmente "non si può sapere quanto durerà" il conflitto.
Ma non è il vento di sabbia a tormentare i comandi americani. E' il dilemma tremendo della battaglia finale che sta per cominciare e che deciderà non il risultato militare del conflitto, che è scontato, ma il suo esito politico, "il costo della vittoria", come lo chiama il New York Times, umano e politico. Bagdad, sì, ma a che prezzo? Pagare con molte vite americane e inglesi, per avanzare quartiere per quartiere, nel fuoco dei cecchini, degli irriducibili baathisti rimasti indietro a battersi? Radere al suolo la città, come l'aviazione e l'artiglieria potrebbero fare in poche ore, dovendo poi spiegare al mondo, e soprattutto al mondo arabo, che quella nuova Grozny è la pace e la libertà promesse?
O sperare che siano vere le voci da Bassora, che parlano di sollevazioni popolari contro il regime, e dunque entrare nella capitale tra baci di ragazze, lanci di fiori e di razioni alimentari, come Napoli, a Parigi, accolti dalla popolazione festante? E Saddam? Dovrà essere ucciso, impiccato per i piedi, trascinato in catene, perché la vittoria sia davvero vittoria?
"Tough business", affare duro, ammette il segretario Rumsfeld, accusando di impazienza un giornalista che gli chiede se l'invasione sia già finita nella palude. Franks, il comandante dell'operazione, "ha preparato piani per rispondere a ogni evenienza con ogni mezzo", ci informa il Pentagono, "ogni evenienza". Il "prezzo di Bagdad" potrebbe essere spaventoso e per questo dovrà essere deciso dai due leader veri di questa coalizione che in realtà è solo un tandem, Blair e Bush, qui a Washington, dove il primo ministro britannico arriverà per far rivivere il mito di Roosevelt e Churchill. Il loro sarà un vertice tremendo, davanti a un tavolo di possibilità spaventose.
I generali americani, scottati dalle "giornate dure" e dalla resistenza dei "boia chi molla" iracheni, sono per la guerra totale. Lo urban warfare, la guerra nelle strade, è esattamente quella che la dottrina del bombardamento "shock e terrore" voleva evitare e non ha finora evitato. "Non si può fare la frittata senza rompere le uova", predicano Franks, il comandante di teatro d'operazione, Myers, il generale d'aviazione e i comandanti delle unità al fronte che sanno bene come, nella "guerriglia urbana" tutto il vantaggio tecnologico e tattico delle loro unità si annulli. Non è un segreto, a Washington, che i quadri dell'esercito siano molto preoccupati da questa guerra condotta con il freno a mano tirato, voluta dai politici. Una guerra, i quadri senior lo bisbigliano, con "una mano legata dietro la schiena", come 30 anni or sono in Indocina.
Ma Blair verrà qui proprio per perorare la causa della prudenza, della battaglia che "non sciolga il cane della guerra", come lui ama dire citando l'Enrico V di Shakespeare, perché pensa al dopo e sa che fare un deserto e chiamarlo pace non sarebbe quella vittoria politica più importante della vittoria militare. "Ogni palazzo, ogni infrastruttura sbriciolata da quella preparazione di artiglieria e di bombardamenti dovrà essere ricostruita da noi, coi nostri soldi", dirà Blair a Bush, che già deve vedersela con un Parlamento furioso per l'ennesima bugia raccontata alla vigilia dell'invasione, quando Powell, Rumsfeld, il suo vice Wolfowitz, il capo di stato maggiore Shinseki, sfilarono davanti alla commissione forze armate per giurare, con eroica faccia di bronzo, che "un cartellino del prezzo" non poteva essere appeso alla guerra. E ora si presentano con un cifra precisa al milione di dollari (e certamente falsa per difetto anche questa) 74 miliardi e 700 milioni.
Si rincorrono voci di un'ultima difesa da crepuscolo degli dei, di quelle famigerate "armi chimiche" pronte nel cuore di tenebra iracheno e non si capisce se sia terrore o speranza. Lo scoppio di un'ogiva caricata di gas toglierebbe ogni freno, ogni esitazione verso la guerra totale e senza quartiere. Ieri sera, al briefing del Pentagono, il generare Myers ha ripetuto che, se Saddam usasse le armi chimiche, "noi risponderemmo con ogni mezzo a nostra disposizione". Sappiamo tutti che cosa vuol dire, anche l'atomica.
Come diceva il generale Sherman, conquistatore del Sud nella guerra civile americana, "la guerra è sempre una cosa immonda, e non c'è mai modo di ingentilirla".
Ma non è il vento di sabbia a tormentare i comandi americani. E' il dilemma tremendo della battaglia finale che sta per cominciare e che deciderà non il risultato militare del conflitto, che è scontato, ma il suo esito politico, "il costo della vittoria", come lo chiama il New York Times, umano e politico. Bagdad, sì, ma a che prezzo? Pagare con molte vite americane e inglesi, per avanzare quartiere per quartiere, nel fuoco dei cecchini, degli irriducibili baathisti rimasti indietro a battersi? Radere al suolo la città, come l'aviazione e l'artiglieria potrebbero fare in poche ore, dovendo poi spiegare al mondo, e soprattutto al mondo arabo, che quella nuova Grozny è la pace e la libertà promesse?
O sperare che siano vere le voci da Bassora, che parlano di sollevazioni popolari contro il regime, e dunque entrare nella capitale tra baci di ragazze, lanci di fiori e di razioni alimentari, come Napoli, a Parigi, accolti dalla popolazione festante? E Saddam? Dovrà essere ucciso, impiccato per i piedi, trascinato in catene, perché la vittoria sia davvero vittoria?
"Tough business", affare duro, ammette il segretario Rumsfeld, accusando di impazienza un giornalista che gli chiede se l'invasione sia già finita nella palude. Franks, il comandante dell'operazione, "ha preparato piani per rispondere a ogni evenienza con ogni mezzo", ci informa il Pentagono, "ogni evenienza". Il "prezzo di Bagdad" potrebbe essere spaventoso e per questo dovrà essere deciso dai due leader veri di questa coalizione che in realtà è solo un tandem, Blair e Bush, qui a Washington, dove il primo ministro britannico arriverà per far rivivere il mito di Roosevelt e Churchill. Il loro sarà un vertice tremendo, davanti a un tavolo di possibilità spaventose.
I generali americani, scottati dalle "giornate dure" e dalla resistenza dei "boia chi molla" iracheni, sono per la guerra totale. Lo urban warfare, la guerra nelle strade, è esattamente quella che la dottrina del bombardamento "shock e terrore" voleva evitare e non ha finora evitato. "Non si può fare la frittata senza rompere le uova", predicano Franks, il comandante di teatro d'operazione, Myers, il generale d'aviazione e i comandanti delle unità al fronte che sanno bene come, nella "guerriglia urbana" tutto il vantaggio tecnologico e tattico delle loro unità si annulli. Non è un segreto, a Washington, che i quadri dell'esercito siano molto preoccupati da questa guerra condotta con il freno a mano tirato, voluta dai politici. Una guerra, i quadri senior lo bisbigliano, con "una mano legata dietro la schiena", come 30 anni or sono in Indocina.
Ma Blair verrà qui proprio per perorare la causa della prudenza, della battaglia che "non sciolga il cane della guerra", come lui ama dire citando l'Enrico V di Shakespeare, perché pensa al dopo e sa che fare un deserto e chiamarlo pace non sarebbe quella vittoria politica più importante della vittoria militare. "Ogni palazzo, ogni infrastruttura sbriciolata da quella preparazione di artiglieria e di bombardamenti dovrà essere ricostruita da noi, coi nostri soldi", dirà Blair a Bush, che già deve vedersela con un Parlamento furioso per l'ennesima bugia raccontata alla vigilia dell'invasione, quando Powell, Rumsfeld, il suo vice Wolfowitz, il capo di stato maggiore Shinseki, sfilarono davanti alla commissione forze armate per giurare, con eroica faccia di bronzo, che "un cartellino del prezzo" non poteva essere appeso alla guerra. E ora si presentano con un cifra precisa al milione di dollari (e certamente falsa per difetto anche questa) 74 miliardi e 700 milioni.
Si rincorrono voci di un'ultima difesa da crepuscolo degli dei, di quelle famigerate "armi chimiche" pronte nel cuore di tenebra iracheno e non si capisce se sia terrore o speranza. Lo scoppio di un'ogiva caricata di gas toglierebbe ogni freno, ogni esitazione verso la guerra totale e senza quartiere. Ieri sera, al briefing del Pentagono, il generare Myers ha ripetuto che, se Saddam usasse le armi chimiche, "noi risponderemmo con ogni mezzo a nostra disposizione". Sappiamo tutti che cosa vuol dire, anche l'atomica.
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