Da Il Manifesto del 25/03/2003

Come mai?

di Luigi Pintor

Sembrava probabile e quasi ovvio, non solo ai fautori e sostenitori della guerra ma anche ai suoi avversari, che l'Iraq sarebbe crollato in breve tempo. Per ragioni militari, prima di tutto, data la smisurata sproporzione delle forze in campo. Ma soprattutto per ragioni politiche, essendo quello di Saddam un regime tirannico e fantoccio. Non è andata e non va così. Ci promettono che la guerra sarà lunga, ci saranno molte perdite da entrambi le parti (soprattutto da una parte, si capisce), l'invasione incontra una resistenza non sporadica ma generalizzata (Bassora è in queste ore un teatro di guerra e guerriglia e diventerà un cimitero). Perché, come mai, com'è possibile? Non è un qualsiasi errore di calcolo, è un rovesciamento di scenari su cui riflettere e da cui trarre conseguenze non superficiali.

Gli americani possono essere stati abbagliati dalla loro potenza e superbia militare ma c'è molto di più. C'è al fondo di questa impresa una «ignoranza», se così si può dire, un'ignoranza che è peggio della menzogna e che purtroppo non è solo una loro prerogativa ma è sempre esistita in occidente e resta evidentissima nell'italietta cobelligerante. E' l'ignoranza di tutto un mondo che fu e rimane, secondo questa mentalità, essenzialmente «coloniale».

Ci troviamo invece e inopinatamente di fronte a una nazione, a un territorio che appartiene a chi lo abita da sempre, a un paese di trenta milioni di anime che viene bombardato e invaso e non ci sta. Noi la chiamiamo liberazione da un tiranno, ma non c'è stata chiesta né da un partito fratello né da un governo in esilio. E per chi la subisce è intanto e semplicemente quello che è, un'aggressione e un'invasione straniera che promette cioccolata e sigarette a prezzo di una soggezione completa. Saddam il tiranno può ben fare appello non più ad Allah ma alla guerra patriottica, alla guerra di indipendenza contro un destino coloniale.

Vecchio scarpone, quanto tempo è passato etc. Non c'entra ovviamente niente la guerra d'Abissinia, né le guerre d'Africa pre-fasciste, ma la televisione che in quegli anni era la copertina illustrata della Domenica del Corriere mostrava i ras etiopi scalzi e con la lancia a fronte dei caschi coloniali che con le mitragliatrici avrebbero spazzato quel deserto lastricandolo di moderne autostrade. Poi però per vincere ci sono voluti i gas asfissianti, a cui Indro Montanelli non ha mai onestamente voluto credere, perché anche il Negus Neghesti era un imperatore preferibile al maresciallo Rodolfo Graziani.

Ma ora siamo in Iraq nel 2003, le guerre d'indipendenza si addicono al nostro risorgimento e non certo a un paese terzo o quarto come quello, e infatti questo scenario inatteso può benissimo rovesciarsi di nuovo. La disinformàzia ci dice contemporaneamente che gli inglesi si ritirano da Bassora, dove una volta morirono in cinquantamila, ma sono a cento chilometri da Baghdad, dove moriranno invece cinquantamila iracheni. E un altro scenario può rovesciarsi, giacché finora contiamo i morti militari e civili col pallottoliere ma un massacro può essere l'esito finale.

Lo scenario che non cambierà, oggi né domani, è quello del mondo che invoca la pace come unica vittoria. Non la invoca con la retorica o con le manifestazioni ma la mantiene viva, sotto il fuoco della guerra, come sinonimo di esistenza e garanzia di futuro.

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