Da Il Messaggero del 25/03/2003

Arma segreta, l'orgoglio arabo

di Marcella Emiliani

E’ FACILE liquidare il discorso pronunciato ieri da Saddam Hussein alla Tv irachena come un semplice e disperato atto di propaganda. In realtà il dittatore ha suggerito non solo al suo popolo, ma all’intero mondo arabo-musulmano le chiavi attraverso cui interpretare quanto sta succedendo in Iraq. Potremmo chiamarlo “il discorso delle bugie e della redenzione" tanto è infarcito di menzogne e di richiami alla superiore volontà divina, ormai scomodata quasi quotidianamente per assicurare la vittoria a Bagdad. Ed è stato un discorso imperniato sostanzialmente su due concetti: 1) questa volta «i brutti americani» sono venuti per invadere e conquistare e dunque la loro guerra è a tutti gli effetti una guerra coloniale; 2) l’Iraq è innocente e dunque «gli aggressori» verranno puniti e «si pentiranno di essersi cacciati in trappola». Da una parte dunque c’è il Male, dall’altra il Bene, in una visione assai manichea della storia che ignora totalmente le malefatte del suo regime. Ma il linguaggio è quello che gli iracheni oggi sono in grado di comprendere ed è lo stesso che viene usato nelle piazze del Cairo, di Amman o di Sana’a, ma anche nelle piazze occidentali, per condannare la «guerra degli americani». Con le parole di Saddam. «Non ci hanno mai lasciato in pace (dalla guerra del 1991) e hanno continuato a bombardarci coi loro aerei. Adesso hanno invaso il paese anche con le forze terrestri. L’invasore è venuto a occupare la vostra terra... e quando non hanno avuto più scuse sono venuti con le loro vere facce, brutte. Il nostro scopo è di evitare il male, ma quando il male arriva dobbiamo affrontarlo con la fede di Dio». L’Iraq invece è dalla parte del giusto, avendo sempre risposto a tutte le richieste, anche quelle illegittime, nella speranza che venissero abrogate le sanzioni. Ma a nulla è valsa la buona volontà del regime. A riprova di come la resistenza irachena sia da ascrivere al fronte del Bene, Saddam ha adeguatamente stigmatizzato le truppe anglo-americane tacciandole praticamente di codardia. «Cercano di evitare lo scontro diretto — ha affermato —. Non vogliono combattere ad armi pari. Il popolo deve essere pronto perché ogni sconfitta che avranno a terra intensificheranno i loro bombardamenti». E con questo ha ottenuto due risultati in uno: ha fatto appello al tradizionale coraggio arabo, al senso dell’onore del suo popolo e ha cercato anche di persuaderlo che la pioggia di bombe che gli sta cadendo in testa sia in realtà un segno dell’impotenza e della debolezza dell’avversario. Tutto sta a vedere quanto gli crederanno gli iracheni, che comunque non possono essere rimasti insensibili quando il raìs ha praticamente messo le mani sul movimento pacifista mondiale, ringraziandolo ufficialmente per quanto sta facendo. Questo è stato il vero capolavoro politico del suo discorso: saddamizzare
i contrari alla guerra a tutte le latitudini, farli propri e appenderserli al bavero come una coccarda di cui vantarsi nei confronti dei «brutti americani». Se gli si potesse parlare forse sarebbe inutile spiegargli che chi invoca la pace — per lo meno in Occidente — non è automaticamente dalla parte del suo regime. Nella sua ottica perversa ed opportunista il pacifismo invece lavora a suo vantaggio e lui spera che eroda il consenso ai governi americano e inglese al punto da resuscitare “l'effetto Vietnam" quando gli Usa la guerra la vinsero con le armi, ma la persero — come si usa dire — nei cuori e nelle menti degli americani. Quanto al mondo arabo i suoi calcoli vanno oltre: pigiando sui tasti del vittimismo e dell’appello a Dio spera che le masse islamiche travolgano quei regimi che — pur condannando la guerra — in realtà non vogliono o non possono opporsi a Washington. Ha in mente ad esempio Mubarak d’Egitto, Abdallah II di Giordania o l’Abdallah reggente in Arabia Saudita. E sa anche che se la sua Guardia repubblicana impegnerà le truppe anglo-americane in sacche di feroce resistenza, il tempo lavorerà tutto a suo favore.

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