Da Il Manifesto del 25/03/2003

Fra corpi e parole

di Ida Dominijanni

Sorpresa, la guerra cade sui corpi: li offende, li uccide, li ferisce, li amputa. Donald Rumsfeld è contrariato e invoca contro Al Jazeera la convenzione di Ginevra - la stessa che gli Stati uniti hanno stracciato a Guantanamo, ma lasciamo perdere. Mi chiedo se Rumsfeld e tutti quelli contrariati come lui ci sono o ci fanno, come dicono a Roma. Davvero contavano che il corpo del reato potesse restare occultato? Davvero pensavano che in tempi di cavi e satelliti la strategia del bombardamento-spettacolo concordata con la Cnn, fuochi d'artificio sui palazzi di Baghdad che crollano senza che un solo corpo imbratti di sangue la geometrica potenza delle bombe intelligenti, potesse regnare indisturbata? Solito errore di valutazione di una globalizzazione vista solo dall'alto del potere, politico e mediatico. In basso, invece, le informazioni circolano altrimenti e anarchicamente. E il corpo, eterno rimosso della politica e della guerra che vorrebbe esserne la continuazione, irrompe sulla scena e la stravolge. Non solo per questa irruzione del corpo fallirà la strategia dell'immaginario allestita a sostegno dell'attacco preventivo all'Iraq. La quale consiste, con tutta evidenza, nell'estrarre dall'inconscio americano il ricordo dell'icona totale delle Torri Gemelle tranciate dagli aerei-cyborg di Al Quaeda, sostituendola con l'icona more shocking and awing dei funghi di fuoco sullo sky-line di Baghdad: come fa il dentista quando ti toglie un dente che fa male e ti ci piazza sopra una bella capsula, né più né meno, altro che elaborazione della ferita dell'11 settembre. Ma non funzionerà, perché il film che si gira nel cielo sopra Baghdad è una copia cattiva di quello girato a suo tempo nel cielo sopra Manhattan, e non ha lo stesso effetto. Una prova? Allora il mondo rimase, come si disse, senza parole: alla lettera, nel senso che mancavano le parole per dire lo spiazzamento, lo sgomento di fronte all'immaginario che si faceva realtà, lo stordimento di fronte a un mondo globale che repentinamente ci si rivelava da una prospettiva capovolta. Adesso invece le parole ce le abbiamo, perché per quanto possano essere suonare insufficienti fanno parte, tuttavia, di un archivio noto. Nel suo orrore che si presenta ogni volta diverso, la guerra mantiene comunque una sua dose costante di ripetizione che afflige senza spiazzare e senza sorprendere. Anche da qui si vede che Bush ha preso una strada sbagliata: quella di imbrigliare nella ripetizione cieca un mondo in tumultuoso mutamento che domandava l'invenzione di parole nuove.

Quelle che spuntano adesso dal fragore della guerra che coincide col collasso della politica, non sempre convincono. Prendiamo il discorso, che sta diventando un tormentone, sull'occidente diviso fra le due sponde dell'Atlantico, con la Vecchia Europa regno di Venere e Kant di qua e la Nuova America bushiana regno di Marte e Hobbes di là, secondo le ormai note metafore correnti. Tutto vero se, di nuovo, guardiamo la situazione solo dal punto dei poteri e dei governi. Ma se rovesciamo il cono e lo guardiamo dalla base, ecco che fra le due sponde dell'oceano si rincorrono nuove rispondenze. Un esempio vicino vicino, l'articolo di Judith Butler pubblicato sul manifesto di ieri. Che implicitamente tracciava un ponte non solo fra il movimento no-war americano e quello europeo, ma fra la crisi della legalità democratica americana e quella, per dirne una, italiana. Certo, l'amministrazione Bush non è il governo Berlusconi, ma la cifra dell'illegalità eretta a sistema è la stessa. Implacabilmente, sotto la crosta dell'esportazione armata della democrazia, quello che la crisi mondiale ci mette di fronte è la malattia della democrazia: la sua febbre alta di oggi, ma anche il virus violento che alligna nella sua origine. Quello che Martin Scorsese ha messo a fuoco nel suo Gangs of New York , specchio del tempo che l'establishment di Hollywood ha creduto bene di chiudere in un armadio, come si fa con gli scheletri più scomodi.

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