Da Corriere della Sera del 25/03/2003

Tre incognite per Bush

di Ennio Caretto

Gli occhi pieni di paura, le ferite mortali, la dignità calpestata. Quei morti, quei prigionieri mostrati o raccontati dai media americani sono stati come un colpo di frusta. Improvviso e doloroso. John Mueller, autore de Le guerre, i presidenti e la pubblica opinione , è convinto che riemergerà il fantasma di quel lacerante dibattito che divise il Paese ai tempi del confitto in Vietnam (1965-75). L'ex consigliere della Casa Bianca Stephen Hess pensa che le proteste pacifiste, comunque assai minoritarie, cresceranno fino a diventare un serio ostacolo per l'amministrazione Bush. Il quotidiano più diffuso d'America, Usa T o day , ammonisce che un Paese intimamente convinto, dopo l’11 settembre, della necessità di una guerra planetaria al terrorismo «sarà ora meno propenso a condurla fino in fondo». Ma l'America fa quadrato attorno ai suoi caduti. Orgogliosa. Decisa. I sondaggi condotti domenica, quando il video di Al Jazira cominciava in qualche modo a essere diffuso, segnalano la fiera e indignata reazione degli americani al weekend di sangue. Quello della Cnn , per esempio, rileva sì un modesto calo, dal 74 al 70%, nell'appoggio al conflitto, ma anche un lieve aumento della popolarità di Bush, dal 70 al 72%. Altre indagini demoscopiche indicano l’attesa e la speranza, oggi più forti, che Bagdad venga raggiunta e Saddam Hussein rovesciato in fretta. Come prevedono i generali, forse un po’ ottimisti. E’ una corsa contro il tempo. Se le aspettative dell'immediato crollo del regime e di un’accoglienza favorevole da parte della popolazione liberata, oggi un po’ in ribasso, andassero deluse, osservano Mueller e Hess, Bush sarebbe costretto a imboccare una strada nota a suo tempo con lo sgradevole termine di escalation . Come fece il presidente Johnson nel Sud- Est asiatico. Meglio non pensarci.
L'amministrazione Bush ha davanti a sé, sul fronte interno, tre incognite. Il timore che l’Iraq possa trasformarsi in un conflitto più lungo con perdite superiori al previsto: un piccolo Vietnam di sabbia. Un certo disappunto, piuttosto evidente, nel constatare che sul piano della comunicazione, del controllo mediatico sono assai lontani i tempi della prima Guerra del Golfo. Il nemico ha imparato la lezione. Il soft power , come lo chiamerebbe John S. Nye, non è più assoluto. Infine, il costo della campagna militare è elevato (ogni cruise , per esempio, vale mezzo milione di dollari e ne sono stati lanciati già quasi mille) e non è più diviso in una coalizione o largamente pagato dai Paesi del Golfo come dodici anni fa.
Il primo fattore è il più importante. Gli americani non sono da anni abituati al triste body count , alla conta dei morti del Vietnam: nel conflitto per liberare il Kuwait nel ’91 persero 148 uomini, in Afghanistan 16, nel Kosovo nessuno. La fede cieca nella guerra ad alta tecnologia spinge ancora il 41% degli americani a pensare che, in tutto, i morti e i feriti in Iraq non arriveranno a quota 100. E' una soglia di tolleranza molto bassa: si alzerà, ma fin dove? Molto dipenderà dal fattore mediatico, dall’impatto emotivo sull’opinione pubblica, dichiara Mueller.
Dalla prima Guerra del Golfo a oggi sembra trascorso un secolo. Allora il mondo intero seguì il conflitto solo con le immagini della Cnn . Americana. Oggi ci sono Al Jazira e molte altre emittenti. Arabe. Che cosa sarebbe accaduto se avessero documentato crudamente, come domenica scorsa, le stragi di soldati americani a Beirut nell’84 e a Mogadiscio nel '93, tragedie che indussero la Casa Bianca ad abbandonare Libano e Somalia?
Meglio non pensarci, dicono in molti, sperando che si arrivi a Bagdad in fretta. Meglio non pensarci, o no?

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