Da Corriere della Sera del 25/03/2003

Nella sfida dell’informazione il raìs ha segnato due punti

I duelli tv sono match effimeri in cui vince chi può sfruttare buone notizie

di Sergio Romano

Fra una conferenza stampa e l’altra il ministro iracheno dell’Informazione Mohammed Saeed al-Sahaf ha rilasciato dichiarazioni sarcastiche e aggressive. Non passa giorno senza che i maggiori protagonisti dell’amministrazione americana (Colin Powell, Donald Rumsfeld, Condoleezza Rice, i vertici delle Forze armate) diano interviste alla stampa o alla televisione. Nell’era dell’informazione globale l’uomo pubblico è costretto a salire sul palcoscenico per spiegare gli eventi e ribadire la sua certezza nell’«immancabile vittoria finale». Forse l’aspetto più interessante in questa guerra della comunicazione è la convinzione di ogni oratore che Dio sia sempre immancabilmente dalla sua parte. Mentre il discorso pronunciato ieri da Saddam è carico di riferimenti coranici, quelli di Bush hanno generalmente il tono profetico delle omelìe dei pastori evangelici.
Ogni oratore, naturalmente, ha il suo stile. Saddam dice cose terribili con un volto impassibile, scolpito nel legno. Tony Blair offre la stanchezza dei suoi lineamenti e le borse sotto gli occhi come prova della sua sincerità e buona fede. Tarek Aziz è sarcastico, volpino, forse il solo iracheno che potrebbe recitare con successo la parte del genio cattivo in un film di James Bond. Il generale Tommy Franks è legnoso, austero, affidabile. Condoleezza Rice è tagliente, arguta, aggressiva. Donald Rumsfeld è una specie di Buster Keaton cattivo. Mentre il grande attore del cinema muto usava la propria impassibilità per suscitare il riso, Rumsfeld se ne serve per suscitare il terrore. Colin Powell è uno straordinario preside di scuola media, buono ma fermo e capace di dimostrare che nulla lo addolora quanto l’obbligo di trattare i ragazzi cattivi con rigore e severità.
Chi vince e chi perde in questi duelli a distanza fra i leader dei due campi? Molto dipende, naturalmente, dalle circostanze del momento e soprattutto da ciò che l’oratore ha detto in occasioni precedenti. Con il discorso di ieri Saddam ha segnato due punti. In primo luogo ha dimostrato di essere vivo e ha smentito implicitamente la tesi americana secondo cui il suo regime si starebbe disintegrando. In secondo luogo ha potuto usare gli scontri del giorno precedente per dare credibilità all’affermazione secondo cui gli iracheni si sarebbero battuti contro gli anglo-americani con lo stesso spirito con cui si erano battuti contro gli invasori mongoli del XIII secolo.
Per le stesse ragioni Donald Rumsfeld, domenica, era evidentemente in imbarazzo. Negli scorsi mesi i leader dell’amministrazione americana avevano diffuso la convinzione che il regime iracheno fosse costituito da una cricca di furfanti, che il popolo fosse oppresso brutalmente da un sistema poliziesco e che le Forze armate irachene sarebbero state felici di arrendersi. È possibile che questa previsione si avveri. Ma i fatti di domenica davano ragione a Saddam, non a Rumsfeld.
La maggiore stonatura tuttavia è apparsa nelle brevi dichiarazioni di Bush sui marines catturati a Nassiriya. Ci aspettiamo, ha detto il presidente, che vengano trattati umanamente. Ma come è possibile attendersi un trattamento umano da un sistema politico che lo stesso Bush ha definito per più di un anno malefico e canagliesco? Se l’Iraq può trattare umanamente i suoi prigionieri, è ancora giusto considerarlo un brigante internazionale?
Un’ultima precisazione. Questi duelli della comunicazione, combattuti a distanza sulle onde della televisione, sono match effimeri. Vince chi può sfruttare una buona notizia, perde chi appare contraddetto e smentito dalla realtà. Ma il giorno dopo si combatte un nuovo match in circostanze forse diverse. E nella guerra dell’informazione la vittoria di un giorno annulla, nella memoria dei telespettatori, la sconfitta del giorno prima.

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