Da La Stampa del 24/03/2003

Gli interrogatori dei militari catturati e le immagini di cadaveri

In tv l'angoscia dei prigionieri

di Mimmo Candito

E ora davvero la guerra è con noi. E´ entrata nelle nostre case ieri pomeriggio, agghiacciante, brutale, anche spudorata, come soltanto la guerra sa essere. E la domenica è diventata subito di pietra. La domenica della brava gente, il nostro riposo distratto, la Venier o il Costanzo che dirigevano il flusso rilassato della routine pomeridiana - tutto un mondo d'icone fatue in fuga dalla realtà è sparito di botto. Nello schermo che si è fatto all'improvviso vivo, come un pezzo di storia sbattutoci in faccia da un palinsesto impietoso, quella facce «vere» di soldati prigionieri, quei poveri cadaveri ammucchiati sul pavimento nudo, hanno cancellato noia e latitanza. Poi non si sono più visti, pietà o ipocrisia li hanno oscurati; ma dietro la loro ombra hanno lasciato comunque questo amaro in bocca che non se ne va, questo strappo freddo che ancora attanaglia le viscere della nostra quotidianità. La sequenza è partita all'improvviso, con un annuncio generico, d'immagini che avrebbero fatto vedere «alcuni prigionieri americani catturati presso Nassiriya». Le trasmetteva la tv del Qatar «Al Jazeera», una televisione all news che - grazie alla guerra afghana e ai videoclip di Osama - si è conquistata sul campo un'autorevolezza mondiale, facendone la concorrente diretta della mitica (ma oggi acciaccata) Cnn. La prima inquadratura nemmeno si capiva bene che cosa mostrasse, schiacciata com'era su un brandello di uniforme mimetica sparato in primo piano. Ma come la zoomata ha cominciato ad allargarsi, e la telecamera ha preso a muoversi ruotando lentamente verso sinistra, quel brandello di stoffa camouflage è diventato un povero corpo steso per terra, arroccato in un contorcimento innaturale che soltanto la morte riesce a creare. E accanto a quello, un altro corpo, e poi un altro, e ancora un altro. Finora, la guerra della televisione era stata poco meno d'un filmetto di serie B, che si consumava nei collegamenti dei tg con le bombe lontane sull'orizzonte di Baghdad, lo strillo isterico d'un reporter che si trova l'esplosione dentro l'obiettivo, i carri armati in movimento nel deserto dentro nuvole di polvere. Erano sequenze viste già cento volte, una sorta di videogame perfino meno realistico dei giochini elettronici, tanto più che la precisione delle bombe «intelligenti» toglieva perfino la suspense della morte imprevista. Le nuove tecnologie poi - il videotelefono, soprattutto - le tanto sbandierate nuove tecnologie aggiungevano poco a questa banale rappresentazione «cinematografica». Il set era già stato digerito abbondantemente dalla bulimia della macchina televisiva, la marmellata di realtà e di finzione che è la tv impiastrava un «messaggio» che non pareva offrire l'appeal che il nostro immaginario proietta sul racconto d'una guerra. Ma un cadavere - un corpo vero, di quello ch'è stato un uomo e ora è soltanto un ammasso contorto di carne - s'impone anche quando l'inquadratura è stupida, o sbagliata, o apparentemente insignificante. E la tv si fa allora davvero realtà, e la guerra irrompe allora davvero dentro casa e dentro lo stomaco. Si frantuma un tabù, si spalancano le porte del proibito. Intanto un uomo entra nell'inquadratura dei corpi ammucchiati, lo si vede di spalle, ha un camice azzurro e guanti di lattice, come un medico o un infermiere. Si volta verso la telecamera e sorride. Sorride mentre si abbassa a prendere per i capelli la testa d'uno di quei cadaveri e la ruota verso l'obiettivo, per favorire la zoomata sulla faccia senza più vita. I corpi sono ammucchiati come fagotti abbandonati, una pancia è aperta di sangue. La telecamera fruga impietosa, insistente. Le mosche non si sentono disturbate, continuano il loro pasto sulle pance aperte, sugli occhi sbarrati. Un cadavere ha un foro aperto in mezzo alla fronte, un altro ha un occhio strappato via da un colpo. C'è poco sangue, quasi nulla; questi cadaveri sono morti lontano da quella stanza che la telecamera fa diventare un obitorio. Sulle povere pance, la mano di quello che sorride alla morte allarga i documenti trovati nelle tasche, fogli che sembrano lettere, una fotografia, uno stampato ufficiale, una tessera telefonica, un portafoglio nero, anche una carta di credito. Sono storie di soldati senza nome, storie uguali in tutte le guerre e in tutti i tempi. La tv li aveva risparmiati, finora; opportunismi, pudore, qualche vaghezza di memoria etica, li teneva lontani dall'insistenza marchettara della tv. E però ora, senza uno stacco, ecco che lo schermo ti sbatte addosso la faccia d'un ragazzo biondo, con gli occhialini rotondi da studente; ha i capelli a spazzola, la canottiera verdepallido dei soldati, e guarda dentro l'obiettivo con occhi che hanno paura. Parla una voce in arabo,«Ishmek?». Il ragazzo scuote la testa. «I don't understand. Non capisco». Una voce fuori campo traduce: «Da dove vieni?». «Dal Kansas». Perché sei venuto in Iraq? «Sono venuto perché me lo hanno ordinato». Sei venuto per uccidere gli iracheni? «No, io sono della logistica. Non li molesto se non mi molestano. Se mi sparano, rispondo al fuoco». Come ti chiami? «Pierce Miller, soldato di prima classe». E deglutisce un groppo che gli chiude la gola. Stacco, Secondo prigioniero, pelle scura, capelli cortissimi, si chiama Joseph Button, matricola 556502. E' meno nervoso, finge anche di capire poco. Come ti hanno accolto in Iraq, con la musica o con il kalashnikov? «Mah, non capisco». Ma la gente qui, era con armi? «Sì, armati». Stacco. La faccia che ora riempie lo schermo è tutta occhi. Gli occhi frugano a destra e sinistra, sempre in moto, nervosi, autenticamente impauriti. L'uomo è seduto sul bordo d'una brandina, tiene le mani in grembo, la canottiera è sudata. Ishmek? «Sergente James Riley, settima compagnia». Gli occhi si muovono febbrili. Di quale città sei? «New Jersey». Ancora quegli occhi impazziti. Quanti anni hai? «31». Deglutisce, si stringe nelle spalle, poi abbassa la testa e guarda verso terra. La telecamera inquadra le sue scarpe da deserto. Stacco. Una donna. Ha la faccia grande, con grandi occhi, i capelli tirati sulla nuca. La telecamera l'inquadra dall'alto, seduta su una poltroncina. Non è affatto tranquilla, anche i suoi occhi si muovono con tensione evidente. Ishmek? «Shana». Quanti anni hai? «30». Qual è la tua unità? «La 507ma». Il documento è tutto qui. Non ci sono le labbra gonfie, spaccate dai pugni, dei prigionieri della Seconda Guerra del Golfo, quella di Schwarzkopf e di Cocciolone e di Bellini. Siamo a mezzo tra l'intervista e l'interrogatorio. Ma la sua evidenza di realtà - rispetto alla «realtà costruita» che la televisione produce nel suo palinsesto quotidiano - è choccante: c'è sangue vero, carne spaccata, puzzo di sudore e di vita. C'è la morte. In Somalia, nel '91, Bush-papà aveva lanciato l'operazione «Restore Hope» per vincere la fame in Africa e affermare, laggiù, nel continente dei poveri, la nascita del Nuovo Ordine Internazionale. L'America era con lui, il mondo seguiva affascinato la strategia planetaria del trionfatore del «Desert Storm», del Presidente che aveva liberato il Kuwait e aperto una nuova pagina nella storia del mondo. Poi (ed è il film «Black Hawk Down») la televisione portò nelle case dell'America il cadavere di un povero elicotterista americano trascinato con un legaccio di fil di ferro per le strade di Mogadiscio e i miliziani di Aidid che gli ballavano sulla pancia. L'orrore travolse l'orgoglio della guerra contro la fame e la superbia del Nuovo Ordine Internazionale. Via, subito a casa, tutti a casa. E «Restore Hope» finì con una ingloriosa ritirata. La guerra all'Iraq arriva in un contesto diverso, l'America si sente minacciata direttamente. Nessuno pensa a una ritirata, ci mancherebbe pure. Ma quei poveri corpi ammucchiati in uno stanzone freddo, quella facce impaurite di prigionieri senza futuro, aprono ferite amare nella storia quotidiana dell'America. In «Desert Storm» furono fatte due prigioniere: si chiamavano Melissa Rathbun-Nealy, catturata nel deserto, e Rhonda Cornum, abbattuta con il suo elicottero. Quando furono liberate, alla fine della guerra, raccontarono ch'erano state trattate con cortesia, che gli iracheni offrivano loro fiori e dolci. Poi Rhonda ruppe l'obbedienza ai «consigli» del Pentagono. «Mi hanno violata dappertutto», disse amara. E Melissa volle ripetere: «Mi hanno stuprata tutti, mi hanno umiliata in ogni modo». La guerra non sono le immagini delle bombe da lontano, è morte, violenza, miseria, distruzione della nostra comune umanità. Non ci facciamo ingannare.

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