Da Corriere della Sera del 24/03/2003

"Umanità per i nostri soldati"

di Ennio Caretto

WASHINGTON - «Mi aspetto che siano trattati con umanità, come noi trattiamo con umanità i prigionieri iracheni. Chi non lo facesse sarebbe considerato un criminale di guerra». Al rientro alla Casa Bianca dopo il fine settimana a Camp David, George Bush risponde con furia controllata alle domande dei giornalisti sui soldati americani catturati e uccisi in Iraq. «Gli americani sappiano che è soltanto l’inizio di una guerra dura - aggiunge -. Ma lentamente e sicuramente raggiungeremo i nostri obiettivi, che sono la liberazione e il disarmo dell’Iraq». I giornalisti insistono: il presidente ha visto le immagini dei prigionieri e dei caduti di Al Jazira ? Bush fa capire di no: «Abbiamo alcune informazioni, ma non conosciamo il quadro completo». Si appella alla fede: «Siamo con i nostri uomini sul campo e preghiamo per le loro famiglie».
L’amministrazione è incappata nella prima giornata di crisi del conflitto iracheno. Per tutta la mattina, ai talk show domenicali in tv, il ministro della Difesa Donald Rumsfeld ha cercato di minimizzare. Ha diffidato l’Iraq dall’«umiliare» i 5 soldati catturati, ammonendo che la convenzione di Ginevra del ’49 «vieta queste immagini». Ha definito le foto di Al Jazira «atti di propaganda che non cambiano i nostri piani di guerra». Ha chiesto alle tv Usa di non trasmetterle per rispetto dei familiari, dei prigionieri e dei morti. E ha spiegato che i combattimenti sono dovuti a «episodici casi di resistenza irachena».
Il generale Richard Myers, il capo di stato maggiore delle forze armate, lo ha appoggiato dicendo che «mancano all’appello meno di 10 uomini» e che «nessuno si attendeva che la campagna fosse facile».
Ma la realtà è che il video di Al Jazira ha distrutto l’immagine impersonale, hi-tech e indolore della guerra, così accuratamente costruita dall’amministrazione, dando nomi e volti, giovanissimi, ai morti e ai prigionieri americani. Ha mostrato che essa non è fatta soltanto di gadget elettronici, bombe intelligenti, missili scagliati da duemila km di distanza. È la maggiore differenza rispetto alla guerra del ’91: quella il mondo la seguì solo sulle tv Usa, questa la segue anche sulle tv arabe, dai campi di battaglia. E’ come se ci fossero due guerre, e la seconda non aiuta Bush. Il presidente ne è consapevole.
Perciò sottolinea «i progressi del conflitto, il controllo dei pozzi petroliferi, la liberazione dell’Iraq del Sud, anche se c’è qualche sacca di resistenza». E perciò promette «massicci aiuti entro 36 ore sulla scia della massiccia avanzata».
La risposta di Bush è obbligata. Di fronte al pericolo che le proteste pacifiste in America dilaghino e si crei un’opposizione forte come quella della guerra al Vietnam, il presidente può solo accelerare la campagna « shock and awe », di «choc e timore», e la marcia su Bagdad. A Londra, il ministro della Difesa britannico Geoff Hoon pronostica che la capitale irachena sarà presa d’assedio già domani, e ne promette la conquista, pur ammettendo che Saddam Hussein potrebbe usare armi chimiche e batteriologiche e che la battaglia potrebbe procedere «di casa in casa». Bush non azzarda previsioni, ma segnala che non si fermerà fin quando non avrà eliminato il raìs: «Ha perso la sua ultima occasione rifiutando di andare in esilio. Il suo regime si sta scollando, sta perdendo il potere». Non risponde alla domanda se il despota sia vivo o morto. Ma è possibile che tenga un nuovo discorso alla nazione per compattarla e spronarla.
Molto, tuttavia, dipenderà dai media americani, accusati, con poche eccezioni, di essere stati la cassa di risonanza di Bush nell’anno che ha preceduto il conflitto, e di essersi adesso allineati al Pentagono. Il presidente ha asserito che la vittoria sull’Iraq «è soltanto una questione di tempo». Ma lo è anche la trasformazione dei media Usa da spalleggiatori a osservatori critici. Il presidente Lyndon Johnson, che nel ’68 rinunciò a ricandidarsi alla Casa Bianca a causa della guerra del Vietnam, disse che per la vittoria era più importante il supporto del New York Times e del Washington Post che l’invio al fronte di altre due divisioni.

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