La fabbrica del terrore. L'11 settembre, Bin Laden, la guerra
Edito da Olimpia, 2001
184 pagine, € 14,46
ISBN 8825381030
di Jean-Pierre Husson, Andrea Nativi
Quarta di copertina
«Sento di avere solo nove anni. Un anno e mezzo nel Jihad in Palestina e sette anni e mezzo nel Jihad afgano. Il resto degli anni non ha valore». Parola di Abdullah Azzam, padre spirituale di Osama Bin Laden e massimo ideologo della guerra santa contro l’Occidente. Ma la connotazione fondamentalista è solo l’aspetto apparente di un conflitto che ha matrici e obiettivi ben più secolari: il vero fine del terrorismo islamico – rivelatosi in tutta la sua spaventosa potenza negli attentati dell’11 settembre 2001 – è l’acquisizione di un potere contrattuale e di ricatto tale da consentire l’attuazione di piani eminentemente politici. Osama Bin Laden voleva diventare il nuovo califfo, dominare la penisola arabica, rovesciare la monarchia saudita e quelle degli emirati della regione. E forse la guerra al satana americano era strumentale a questo disegno. Ma neanche un genio del male colto, ricco e senza scrupoli – del quale questo libro racconta la storia e i misfatti – è riuscito a concretizzare l’intento. «Fare ordine nella rete finanziaria di Bin Laden è come provare a risolvere un puzzle di diecimila pezzi quasi tutti dello stesso colore» dicono al dipartimento di Giustizia di Washington. Per forgiare il suo strumento bellico Osama ha fatto ricorso a mille stratagemmi, ha investito capitali, ha stabilito alleanze, ha tradito vecchi amici, si è accattivato le simpatie dei futuri nemici. E se oggi appare ai nostri occhi come il grande burattinaio del terrorismo islamico, ciò è stato possibile anche grazie a complicità insospettate, ad accordi segreti tra gruppi etnici, movimenti religiosi, enti governativi di Stati solo apparentemente antagonisti. Bin Laden non è certo il Lenin della Jihad islamica né il Che Guevara della rivoluzione terzomondista – scrivono gli autori di questo libro – ma essenzialmente un uomo che ha saputo tessere con pazienza la sua ragnatela aspettando il momento giusto per uscire allo scoperto e colpire, uno che ha portato a compimento un’efficace operazione di proselitismo all’interno di gruppi ed etnie in cui era già in atto un sentimento di intolleranza non solo nei confronti del mondo occidentale, ma anche e soprattutto nei confronti dei regimi d’origine. Comprendere il mosaico di alleanze, tradimenti e rancori tribali che ha caratterizzato oltre due decenni di storia afgana – e spiegare come sia nata, cresciuta e sviluppata Al-Qaeda – è la premessa indispensabile per capire i come e i perché di quanto sta avvenendo in quella lontana parte del mondo, dove il vento e la siccità la fanno da padrone, dove le guerre si succedono l’una all’altra senza soluzione di continuità, dove l’odio sembra rimasto l’unico, funesto segnale di vita.
«Sento di avere solo nove anni. Un anno e mezzo nel Jihad in Palestina e sette anni e mezzo nel Jihad afgano. Il resto degli anni non ha valore». Parola di Abdullah Azzam, padre spirituale di Osama Bin Laden e massimo ideologo della guerra santa contro l’Occidente. Ma la connotazione fondamentalista è solo l’aspetto apparente di un conflitto che ha matrici e obiettivi ben più secolari: il vero fine del terrorismo islamico – rivelatosi in tutta la sua spaventosa potenza negli attentati dell’11 settembre 2001 – è l’acquisizione di un potere contrattuale e di ricatto tale da consentire l’attuazione di piani eminentemente politici. Osama Bin Laden voleva diventare il nuovo califfo, dominare la penisola arabica, rovesciare la monarchia saudita e quelle degli emirati della regione. E forse la guerra al satana americano era strumentale a questo disegno. Ma neanche un genio del male colto, ricco e senza scrupoli – del quale questo libro racconta la storia e i misfatti – è riuscito a concretizzare l’intento. «Fare ordine nella rete finanziaria di Bin Laden è come provare a risolvere un puzzle di diecimila pezzi quasi tutti dello stesso colore» dicono al dipartimento di Giustizia di Washington. Per forgiare il suo strumento bellico Osama ha fatto ricorso a mille stratagemmi, ha investito capitali, ha stabilito alleanze, ha tradito vecchi amici, si è accattivato le simpatie dei futuri nemici. E se oggi appare ai nostri occhi come il grande burattinaio del terrorismo islamico, ciò è stato possibile anche grazie a complicità insospettate, ad accordi segreti tra gruppi etnici, movimenti religiosi, enti governativi di Stati solo apparentemente antagonisti. Bin Laden non è certo il Lenin della Jihad islamica né il Che Guevara della rivoluzione terzomondista – scrivono gli autori di questo libro – ma essenzialmente un uomo che ha saputo tessere con pazienza la sua ragnatela aspettando il momento giusto per uscire allo scoperto e colpire, uno che ha portato a compimento un’efficace operazione di proselitismo all’interno di gruppi ed etnie in cui era già in atto un sentimento di intolleranza non solo nei confronti del mondo occidentale, ma anche e soprattutto nei confronti dei regimi d’origine. Comprendere il mosaico di alleanze, tradimenti e rancori tribali che ha caratterizzato oltre due decenni di storia afgana – e spiegare come sia nata, cresciuta e sviluppata Al-Qaeda – è la premessa indispensabile per capire i come e i perché di quanto sta avvenendo in quella lontana parte del mondo, dove il vento e la siccità la fanno da padrone, dove le guerre si succedono l’una all’altra senza soluzione di continuità, dove l’odio sembra rimasto l’unico, funesto segnale di vita.
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