Da L'Unità del 22/10/2006
Originale su http://www.unita.it/view.asp?IDcontent=60496

Putin non si fa processare: la Mafia non è russa, è italiana

di Sergio Sergi

Lo sguardo gelido, qualche impercettibile fremito del muscolo facciale e un foglietto d'appunti sul tavolo. Era arrivato preparato Vladimir Putin alla cena della «Sibelius Hall». Da uomo d'esperienza, sapeva che quella cena si sarebbe svolta come un confronto impari. Insomma: più un processo che una rimpatriata tra amici o un incontro improntato al fair play diplomatico. Un processo politico con tanti capi d'accusa. Tra tutti: l'imputazione di scarso rispetto per le regole democratiche e il finto interesse per l'apertura del mercato industriale. Lui, però, non aveva alcuna voglia di subire l'assalto degli europei che lo avevano espressamente invitato. Anche in segno di rispetto per il leader di un grande paese. Vicino e partner. Aveva preso le contromisure anche perché, forse, pensava che avessero un'eco le sue pesanti affermazioni sulle imprese del presidente israeliano. E, ad un tratto, quando venne il momento della discolpa, decise di giocare pesante: «Voi rimproverate i nostri metodi, la nostra politica, parlate di una società russa dominata dalla mafia. Voi non sapete di cosa parlate, la mafia non è una parola russa. La mafia è italiana».

Una sfuriata senza precedenti. Sembrava digrignasse i denti, a sentire un alto funzionario che c'era. Putin era stato a sentire, sino a quel momento, il rosario delle lamentele, il passar al setaccio della situazione interna del Paese, le angherie verso i vicini del Caucaso, i rimproveri per l'uso delle risorse energetiche come strumento politico. Eh, sì, gli europei s'erano messi d'accordo. Ah!, come s'erano messi d'accordo prima di incontrarlo nella notte. Visto che la cena si sarebbe consumata nel palazzo dei concerti intitolato a Sibelius, i leader europei si erano fatti coraggio: quando arriva, gliele cantiamo noi al colonnello Putin. Altro che sviolinate da «Valzer Triste» del compositore nazionale. Cannonate: l'assassinio della Politkovskaja, la Cecenia, le minacce alla Georgia e, certamente, l'energia. Dacci gas e petrolio e facci entrare nel tuo mercato. S'erano pure messi d'accordo sulla tattica. Come nella finale dei mondiali. Chi attacca, pardon, chi parla per primo? Dai, spara tu, Vanhanen, che sei il presidente di turno e l'ospite finlandese, inchiodalo sul tema dei diritti, sulla democrazia, sui nostri princìpi. Poi, subito dopo, scenderà in campo Barroso che è il capo della Commissione, gli mette in fila tutto il dossier energetico, quello si prende paura e ci pappiamo Gazprom. A seguire, tutti gli altri cannonieri: Chirac, Prodi, Blair, Merkel. E gli ex: l'estone Ansip, il lituano Adamkus, il lettone Kalvïtis. I baltici una volta satelliti. I dirimpettai geografici di San Pietroburgo (Leningrado), la città natale di Putin.

Ora che tutti sono partiti, sulla piccola Lahti è tornata la calma. E sembrano riecheggiare le grida di Putin nella sala da pranzo della Sibelius Hall. Accompagnate dal battere del palmo sul tavolo. Erano andati per suonarle e furono suonati. Poco ci è mancato. Putin non s'è fatto processare. Quando ha citato la mafia, nessuno ha osato replicare. Prodi aveva già parlato di «interdipendenza» tra Russia e Ue. La cancelliera Merkel si era preoccupata di tener ferma la barra del negoziato commerciale mentre Vanhanen temeva che i 25 si disunissero «lasciando il gioco nelle mani di Putin». Profezia quasi azzeccata. Tony Blair, al suo turno, teneva a sottolineare quanto fosse importante la partnership d'affari che non andava confusa con quella a carattere politico. Certo, c'era Josep Borrell, il presidente del Parlamento europeo che non aveva nulla da perdere. I capi di governo devono fare affari con Putin, lui no. Forte di una risoluzione di Strasburgo, Borrell ha tenuto il punto: «Ci sono flussi di gas e flussi di danaro. E la Russia ha bisogno di soldi, perché il gas non si mangia». Era l'ultimo. Poi è toccato al presidente russo. La mafia? Roba italiana. A me parlate di democrazia? Uno sguardo ai foglietti, un'occhiata a Zapatero e Borrell: «E che mi dite dei sindaci spagnoli che incarcerate in massa»?

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