Da Famiglia cristiana del 30/08/2006
Originale su http://www.sanpaolo.org/fc/0636fc/0636fc77.htm

Comunità di Sant'Egidio, Ottobre 1986 - Settembre 2006

Ritorno ad Assisi

di Andrea Riccardi

Sono passati vent’anni da quell’ottobre 1986, quando Giovanni Paolo II invitò ad Assisi i leader delle Chiese, delle comunità cristiane e delle grandi religioni mondiali a pregare per la pace. La fine del comunismo e della guerra fredda sembrava lontana. Il "nuovo disordine mondiale", in cui le religioni avrebbero giocato un forte ruolo, non era all’orizzonte.

Papa Wojtyla, però, aveva intuito che le religioni possono alimentare la pace o giustificare la guerra. Vedeva profilarsi quelli che poi si sarebbero detti "conflitti di civiltà o di religione". Era convinto che non si sarebbe avverata la previsione di tanto pensiero sociologico per cui la modernità e la secolarizzazione avrebbero estinto la religione. Già in Iran si era affermata una "teocrazia della liberazione", con l’ayatollah Khomeini, che aveva contagiato il Libano (un Paese che, con la sua terribile guerra civile, rappresentò un cruccio costante per il Papa come una convivenza da ristabilire tra cristiani e musulmani).



«Non più l’uno contro l’altro!»

Assisi fu un evento maggiore del pontificato di papa Wojtyla. Così l’ho sentita spiegare da lui nell’agosto 1986, mentre mostrava, ancora una volta, la sua sete di pace e la sua avversione alla guerra (per lui un’"avventura" che lascia il mondo peggiore di come lo ha trovato). L’evento fu semplice, scarno e profondo. La presenza del Papa fu discreta, quella dell’ospite che invita, ma forte nel richiamare al bisogno di convertirsi alla pace. Le risposte furono molte ed entusiaste. Non si discusse né si negoziò. Ciascuna comunità religiosa pregò per suo conto, l’una non lontana dall’altra, l’una non contro l’altra.

Giovanni Paolo II sottolineò il legame profondo tra l’"uomo religioso" e la pace. «Mai come ora», disse, «nella storia dell’umanità è divenuto a tutti evidente il legame intrinseco tra un atteggiamento autenticamente religioso e il gran bene della pace». Per lui questo legame era, allo stesso tempo, una speranza e una convinzione.

Alla fine della giornata i leader convennero nella piazza antistante il convento francescano. L’immagine finale voleva essere un messaggio, che Giovanni Paolo II così sintetizzò: «Non più l’uno contro l’altro!».

Non furono raccolti pensatori di avanguardia, ma – per quello che era possibile in considerazione del diverso strutturarsi delle comunità – le guide dei credenti delle diverse religioni. Volevano rappresentare i popoli nella loro ricerca della comprensione e della pace.
Ho letto recentemente una storia di monsignor Lefebvre, scritta da un collaboratore: un libro fatto bene, in cui si vede lo "scandalo" del vescovo per Assisi voluta dal Papa, "ex padre conciliare" come viene definito (e quello provato da lui verso il cardinale Ratzinger che gli parla della libertà religiosa). Giovanni Paolo II era agli antipodi dal sincretismo o dall’idea di un parlamento delle religioni in cui tutto si ritrovasse in modo indistinto. C’è stato un modo di appellarsi allo "spirito di Assisi" per iniziative (che già si facevano prima dell’86) panreligiose e piuttosto confuse. Oppure di proporre l’incontro tra le religioni come un livello ulteriore alla comunità cristiana. Ma la vita e i problemi dei credenti stanno altrove.

L’idea di Assisi di Giovanni Paolo II era semplice ma forte: dissociare il religioso dalla violenza e dalla guerra, guardarsi con amicizia, rafforzare la dimensione spirituale di fronte alla secolarizzazione della vita delle religioni, indotta dalle passioni politiche e dalla violenza. Bisognava dirlo davanti al mondo. L’impatto pubblico di Assisi 1986 fu molto forte. Non è un caso che, dopo l’11 settembre 2001, Giovanni Paolo II volle tornare ad Assisi, ricevendo una grande adesione dai leader religiosi del mondo.

Per lui Assisi doveva continuare nel vivere insieme in pace tra comunità religiose differenti: chiedeva «nuovi gesti di pace, gesti che spezzeranno le catene ereditate dalla storia o generate dalle moderne ideologie». E concludeva: «La pace attende i suoi artefici…».

Quella domanda toccò molti, tra cui la Comunità di Sant'Egidio, che non ha voluto far cadere quel messaggio in questi due decenni che hanno cambiato il mondo. Da allora sono nati i Meeting internazionali, "Uomini e religioni", che hanno toccato, passando per Assisi e per Roma, le principali città italiane ed europee e hanno allargato il dialogo tra gli uomini e le donne di religione a quello tra le culture. Quest’anno, per la prima volta, sono state toccate una grande capitale d’Oltreoceano, Washington, e una prestigiosa Università come Georgetown. Semi, in molti mondi.

Una storia tutta da scrivere

Di fronte ai drammatici scenari mediorientali degli ultimi giorni, ritrovarsi ad Assisi, dopo vent’anni, può sembrare un romanticismo o un’ingenuità. Ma, proprio di fronte a questo, c’è bisogno di non allargare le distanze e di misurarsi, come credenti, con la pace. Dal 1986, anno dopo anno, il clima di pace è stato coltivato: questo ha frenato derive violente e suscitato energie di pacificazione. È una storia tutta da scrivere, accanto ad aspetti tristi, come lo sviluppo dei fondamentalismi, del culto della morte e della violenza anche in nome della religione.

Continuare su questa linea non è anacronismo, ma necessità nei momenti di crisi. Sta crescendo la familiarità con la violenza in tutti i suoi aspetti, fino a quella terroristica e suicida. La violenza appare sempre meno un orrore e, tra tanti dolori, vi ci stiamo assuefacendo. Oggi, ancor più di ieri, sale forte la domanda che i credenti ricordino come uccidere sia un male e farlo in nome di Dio una bestemmia. Scriveva don Andrea Santoro, ucciso nel febbraio scorso in Turchia: «Dialogo e convivenza non è quando si è d’accordo con le scelte e le idee dell’altro…, ma quando gli si lascia posto accanto alle proprie e quando ci si scambia come dono il proprio patrimonio spirituale». Nella sua ultima lettera parlava di un "vantaggio" dei cristiani da non sciupare e concludeva con Giovanni Crisostomo: «Se ci faremo agnelli vinceremo, se diventeremo lupi perderemo».

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