Da Corriere della Sera del 20/11/2005
Nella struttura di padre Beniamino Sacco: «Domani scapperanno»
«In Italia, anche a rischio di morire»
Strage di Ragusa, il racconto dei 13 minorenni sopravvissuti
di Andrea Garibaldi
VITTORIA (Ragusa) - Le finestre del camerone con i letti a castello hanno le sbarre, ma la porta è aperta. Fuori c’è una partita del torneo di calcetto delle parrocchie, potrebbero andare a vederla da vicino, ma per ora restano lì, ancora non sanno bene dove si trovano.
Mansour Benhanie, diciassettenne di Tunisi, dice, in francese scarso, che ha fatto dodici ore a piedi per arrivare a Zwara, in Libia, che ha pagato mille e cinquecento euro, è salito su quella barca pericolante con altre duecento persone mai viste prima, è stato quaranta ore in un mare in tempesta, poi davanti a Malta il motore ha cominciato ad andare al minimo, le onde erano padrone e ha visto la fine a un passo.
Perché affrontare un rischio così alto? «Per la vita che c’è qui in Italia». Morivi di fame in Tunisia? Tornerai nel tuo paese? Risponde Hamdi Labriki, sedicenne tunisino di Tunisi: «J’aime l’Italie, amo l’Italia. Sono il primo di sei fratelli».
Mostra le mani indurite. «Io lavoro in campagna. Voglio lavorare qui. Manderò i soldi alla mia famiglia». Sono tredici i minorenni scampati alla strage del 18 novembre, quando una nave è approdata sulla spiaggia di Pozzallo (Ragusa), uno dei mari più azzurri e più lindi del nostro Paese, e nove persone sono morte e venti disperse.
I minorenni non si possono portare nei «centri d’accoglienza» vigilati, non si possono espellere con il foglio di via. I minorenni senza genitori vanno affidati e da queste parti l’unico a prenderseli è padre Beniamino Sacco, nella sua parrocchia dello Spirito Santo, a Vittoria.
«Domani non ci saranno più - dice padre Beniamino -. Dopo il penultimo sbarco, quindici giorni fa, la polizia ci mandò 66 minori. Ne sono rimasti tre. Per chi ha meno di 14 anni dovremmo fare un programma educativo, per gli altri dovremmo trovare un lavoro, in modo che a diciotto anni possano ottenere il permesso di soggiorno. Ma vanno via, vanno via. La porta è aperta».
Nel camerone con i letti a castello, le finestre con le sbarre e la porta aperta ci sono facce da ragazzi, pelurie leggere sotto il naso, basette accennate, modi di chi è abituato a cavarsela da sé, di chi ha già visto la fine. Fahsel Ibrahim ha sedici anni, il ventre rotondo e lo sguardo da bimbetto. Ha dichiarato ai poliziotti della questura di Ragusa che viene da Bagdad, Iraq. Invece è marocchino. Allora? Perché sei arrivato qui? Fa un gesto con pollice e indice: «In Marocco poco da fare, vita da poco».
Un altro, Amr Fouda, ha detto «sono di Bagdad» e altri cinque hanno detto «veniamo dalla Palestina» perché qualcuno gli ha suggerito che poteva essere meglio arrivare da Paesi in guerra. In verità sono tutti tunisini, marocchini, due egiziani, come quelli che timonavano la barca, la notte di giovedì, e sono stati arrestati.
«Da noi il lavoro in campagna lo pagano venti euro al giorno. Siamo venuti perché in Italia ne danno ottanta. Almeno ottanta». Parla Mondher Dorai, quattordicenne tunisino. La verità è un’altra: a Vittoria, nelle serre di Vittoria, per raccogliere pomodori e zucchine al massimo si guadagnano trenta euro per una giornata intera. «Siamo venuti per quello che abbiamo visto in televisione, per i turisti italiani che abbiamo conosciuto giù da noi» dice Mohammed Abdelkader, che arriva da Stat, Marocco.
Chiedono tutti solo una cosa: «Posso telefonare?». Hanno tutti un indirizzo in tasca. Parenti, conoscenti, a Milano, o a Perugia, altrove.
«Sanno dove andare - dice padre Beniamino Sacco -. Qualcuno li prende e li porta dove devono andare. Ho sentito che qui a Vittoria c’è un’organizzazione di egiziani per gli spostamenti. Solo per arrivare a Catania, un’ora e mezza di macchina, vogliono trecento euro».
I morti, quelli di cui si sono ritrovati i corpi, resteranno nel cimitero di Scicli, i dispersi saranno cercati per qualche altro giorno.
I sopravvissuti, centosettantanove, sono stati smistati nei centri di Cassibile e di Caltanissetta. La ex dogana di Pozzallo, al porto, è pronta per i nuovi arrivi.
Mansour Benhanie, diciassettenne di Tunisi, dice, in francese scarso, che ha fatto dodici ore a piedi per arrivare a Zwara, in Libia, che ha pagato mille e cinquecento euro, è salito su quella barca pericolante con altre duecento persone mai viste prima, è stato quaranta ore in un mare in tempesta, poi davanti a Malta il motore ha cominciato ad andare al minimo, le onde erano padrone e ha visto la fine a un passo.
Perché affrontare un rischio così alto? «Per la vita che c’è qui in Italia». Morivi di fame in Tunisia? Tornerai nel tuo paese? Risponde Hamdi Labriki, sedicenne tunisino di Tunisi: «J’aime l’Italie, amo l’Italia. Sono il primo di sei fratelli».
Mostra le mani indurite. «Io lavoro in campagna. Voglio lavorare qui. Manderò i soldi alla mia famiglia». Sono tredici i minorenni scampati alla strage del 18 novembre, quando una nave è approdata sulla spiaggia di Pozzallo (Ragusa), uno dei mari più azzurri e più lindi del nostro Paese, e nove persone sono morte e venti disperse.
I minorenni non si possono portare nei «centri d’accoglienza» vigilati, non si possono espellere con il foglio di via. I minorenni senza genitori vanno affidati e da queste parti l’unico a prenderseli è padre Beniamino Sacco, nella sua parrocchia dello Spirito Santo, a Vittoria.
«Domani non ci saranno più - dice padre Beniamino -. Dopo il penultimo sbarco, quindici giorni fa, la polizia ci mandò 66 minori. Ne sono rimasti tre. Per chi ha meno di 14 anni dovremmo fare un programma educativo, per gli altri dovremmo trovare un lavoro, in modo che a diciotto anni possano ottenere il permesso di soggiorno. Ma vanno via, vanno via. La porta è aperta».
Nel camerone con i letti a castello, le finestre con le sbarre e la porta aperta ci sono facce da ragazzi, pelurie leggere sotto il naso, basette accennate, modi di chi è abituato a cavarsela da sé, di chi ha già visto la fine. Fahsel Ibrahim ha sedici anni, il ventre rotondo e lo sguardo da bimbetto. Ha dichiarato ai poliziotti della questura di Ragusa che viene da Bagdad, Iraq. Invece è marocchino. Allora? Perché sei arrivato qui? Fa un gesto con pollice e indice: «In Marocco poco da fare, vita da poco».
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«Da noi il lavoro in campagna lo pagano venti euro al giorno. Siamo venuti perché in Italia ne danno ottanta. Almeno ottanta». Parla Mondher Dorai, quattordicenne tunisino. La verità è un’altra: a Vittoria, nelle serre di Vittoria, per raccogliere pomodori e zucchine al massimo si guadagnano trenta euro per una giornata intera. «Siamo venuti per quello che abbiamo visto in televisione, per i turisti italiani che abbiamo conosciuto giù da noi» dice Mohammed Abdelkader, che arriva da Stat, Marocco.
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