Da La Repubblica del 31/10/2005

Via al più grande collocamento in Borsa dal 2001. I maggiori istituti di credito Usa e europei in corsa, mancano quelli italiani

La Cina apre le banche all'Occidente

Privatizzazione record della Ccb, presto altri due colossi sul mercato

Con l'esordio di China Construction Bank (la terza del Paese) sulla piazza finanziaria si apre una nuova fase
Entro pochi mesi sarà accessibile il più imponente serbatoio di risparmi privati del mondo. Bank of America in prima fila

di Federico Rampini

PECHINO - E' il più grosso collocamento in tutte le Borse mondiali dal 2001, dopo quello del colosso alimentare americano Kraft, e uno degli otto "battesimi" azionari più importanti della storia. E' la terza banca della Cina, con una capitalizzazione di 70 miliardi di dollari vale più di un gigante di Wall Street come Morgan Stanley. L'ingresso in Borsa della China Construction Bank (Ccb) venerdì ha segnato l'avvio di una nuova fase nel boom economico della più grande nazione del pianeta. Gli stereotipi vengono rovesciati. Invece di un'invasione cinese inizia un'invasione in Cina. Tutte le più grandi banche occidentali (escluse solo le italiane), da Bank of America a Bnp Paribas, dalla Royal Bank of Scotland alla Union de Banques Suisses, fanno la coda per partecipare al business che si apre: la privatizzazione degli istituti di credito cinesi. Quello che attira i banchieri occidentali: la Cina è proiettata a diventare il principale serbatoio mondiale di capitali privati, con 4.000 miliardi di dollari di attivi finanziari, in gran parte risparmi delle famiglie custoditi nei depositi bancari. Avvicinare il popolo più numeroso e parsimonioso del pianeta, è il business del futuro per l'industria finanziaria dei paesi avanzati.

La vendita al pubblico delle banche cinesi è un'operazione paragonabile solo alle privatizzazioni di Margaret Thatcher nell'Inghilterra degli anni 80, ed è perfino più singolare politicamente visto che è realizzata da un regime che almeno sulla carta si definisce ancora comunista. E' coerente con una strategia di modernizzazione che le autorità di Pechino hanno già attuato in tutti altri settori dell'economia, aperti da anni alla proprietà privata e all'investimento delle multinazionali straniere. E' anche la prova che non intendono sottrarsi agli impegni presi con l'adesione all'Organizzazione del commercio mondiale: il 2006 è l'anno in cui la Cina ha promesso di aprire completamente il suo mercato finanziario alle banche straniere. Per essere competitive e reggere l'urto della concorrenza straniera, le banche cinesi hanno ancora molto da imparare, devono fare progressi di efficienza e professionalità. La quotazione in Borsa, la privatizzazione (per ora parziale), e soprattutto l'ingresso di grossi soci stranieri esperti nel mestiere, sono tutti passi nella direzione giusta. Non è un caso se proprio in coincidenza con l'ingresso in Borsa della Ccb le autorità monetarie hanno dato un'altra spintarella alla rivalutazione dello yuan verso il dollaro, procedendo per piccoli passi verso la libera convertibilità della moneta.

La Ccb è stata quotata a Hong Kong dopo aver collocato il 12% del suo capitale fra gli azionisti privati. I capitali raccolti sono stati 8 miliardi di dollari, per una banca che ha 520 miliardi di dollari di attivi, 14.000 sportelli e 310.000 dipendenti. Due grossi investitori privati erano già stati accolti in precedenza, per una prima tranche di privatizzazione a prezzi più favorevoli: Bank of America si era comprata da sola il 9% della Ccb per 3 miliardi di dollari, e un altro 6% era stato assegnato per 1,4 miliardi al fondo di investimenti Temasek di Singapore. Le prossime due aziende di credito ai nastri di partenza della privatizzazione sono la Bank of China e la Industrial and Commercial Bank of China (Icbc), due operazioni ancora più grosse perché riguarderanno rispettivamente la numero due e la numero uno del settore. Queste vendite sono previste all'inizio del 2006. Nonostante il clima da "febbre dell'oro" tra i banchieri occidentali, e malgrado la domanda di titoli Ccb abbia superato 43 volte l'offerta, alla sua prima quotazione in Borsa l'azione non ha fatto exploit particolari. E' una conferma delle cautele che ancora circondano il settore bancario cinese. Le cinque maggiori banche cinesi - cioè Icbc, Bank of China, Ccb, Agricultural bank e Bank of Communications - controllano il 60% dei prestiti e dei depositi del paese, ma fino a pochi anni fa erano tutte tecnicamente insolventi. Totalmente controllati dallo Stato, questi istituti non ubbidivano a logiche di mercato: funzionavano da erogatori "automatici" del credito per le grandi aziende pubbliche, senza verificare la solidità e la redditività degli investimenti che finanziavano. Nella loro storia quindi le grandi banche hanno accumulato prestiti verso i "dinosauri" dell'economia cinese: industrie pesanti che non hanno retto il passo con la globalizzazione e oggi sono costrette a ristrutturarsi con fallimenti e licenziamenti di massa. La parte più moderna dell'economia - dal tessile alle calzature, dai computer ai telefoni - ha spesso seguito altre strade per il suo finanziamento: quotandosi sulle Borse estere, oppure attingendo ai circuiti paralleli dell'economia sommersa dove esistono "banche private" che riciclano i capitali all'interno dei distretti industriali della piccola impresa. Scollegati dalla parte più dinamica dell'apparato produttivo, abituati a comportarsi secondo logiche politiche, poco esperti nel valutare le aziende, i banchieri di Stato cinesi avevano una quantità ignota - ma certamente insostenibile - di crediti incagliati e irrecuperabili. E' solo grazie alle immense riserve valutarie accumulate ad opera della parte sana dell'industria cinese - gli oltre 750 miliardi di dollari depositati nei forzieri della banca centrale come effetto dell'attivo commerciale verso Europa e Stati Uniti - che Pechino ha potuto realizzare un'operazione di pulizia nei bilanci delle sue banche. Nell'arco degli ultimi due anni, il governo ha speso 283 miliardi di dollari per iniettare fondi freschi nelle banche e risanare i loro bilanci mettendoli in regola con gli standard internazionali. Secondo l'Ocse, Pechino dovrebbe versare altri 200 miliardi per completare l'opera. I pessimisti temono che nonostante tutto il sistema bancario nasconda ancora delle debolezze gravi, pronte ad affiorare alla prima crisi economica, e questo spiega che i collocamenti in Borsa non sono seguiti da forti rialzi dei titoli. Ma i banchieri occidentali non hanno di questi dubbi. Solo negli ultimi 12 mesi hanno già investito 18 miliardi di dollari per partecipare alla grande opportunità delle privatizzazioni cinesi. L'attrazione di un paese dove il tasso di risparmio è il 40% del reddito nazionale, è irresistibile.

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