Da La Repubblica del 20/08/2005

I vecchi razzi lanciati contro la Navy sono inefficaci militarmente, ma colpiscono il "fronte interno" americano

Il nuovo fronte del terrorismo

di Vittorio Zucconi

Washington - NELLE stesse acque del golfo di Aqaba che bagnano a sud l'amara spiaggia di Sharm el Sheik, l'armata invisibile di al Qaeda ha dato un altro segnale di quali progressi stia facendo non la guerra "al" terrorismo, ma la guerra "del" terrorismo. I razzi lanciati contro la flottiglia alla fonda davanti ad Aqaba sono stati il primo attacco contro unità navali Usa dall'aggressione alla fregata Cole nel golfo di Aden 5 anni fa.

Riaprendo così un fronte che pareva chiuso. E se dal punto di vista militare sarebbero stati ben poca cosa anche se avessero centrato le due grandi navi della Settima Flotta, quei razzi lanciati in pieno giorno dal territorio della alleata Giordania, dalla stretta baia che Aqaba divide con la Eilat israeliana, dunque in acque considerate ultrasicure, volevano essere appunto un segnale, un biglietto da visita da spendere e da celebrare nell'universo incandescente e infernale della jihad, dove ogni sfida, ogni atrocità, ogni attacco è salutato come un segnale divino e sfruttato per il reclutamento. Come era stato detto più volte, e invano, ai falchi innamorati della propria potenza e agli ideologi neocon innamorati di se stessi, il terrorismo ha un incolmabile vantaggio: non deve "vincere" la guerra, ma deve soltanto "non perderla". E per non perderla, dunque per vincerla, gli basta sopravvivere, dimostrare di esistere e di saper colpire periodicamente e casualmente, lasciando a noi il lavoro sporco del panico e dell'ansia.

Sostenere che ormai la guerra in Iraq è perduta, come ha scritto Frank Reich sul New York Times tre giorni or sono, è più uno scatto di nervi che una valutazione obbiettiva. Ma non è un'affermazione più disonesta di quella iterazione autistica dell'ottimismo che Bush e Cheney esibiscono, ripetendo la giaculatoria di un "progresso" al quale credono ormai sempre meno persone, nel mondo e negli Stati Uniti. Le katjushe lanciate contro le navi Usa non pretendevano di affondare due robuste unità da guerra, come le mine stradali che fanno strage di soldati americani in pattuglia lungo strade che occupano e rioccupano senza controllare mai, non pretendono di sconfiggere l'esercito e i marine degli Stati Uniti. Sono sfide, gesti, che vogliono segnalare a noi, ai "fedeli" del terrore, alle potenziali reclute, che il nemico non può mai sentirsi sicuro, né a casa propria, né dietro le corazze dei blindati e neppure in questa angusta lingua di mare stretta fra tre nazioni amiche, l'Egitto, la Giordania e Israele. Gli Stati Uniti possono costringere i legislatori iracheni a partorire una Carta Costituzionale entro la scadenza artificiale imposta da Washington, alla faccia della presunta "sovranità" irachena e poi annunciarla come l'ennesima "svolta". Ma tre piccoli razzi di antiquariato balistico hanno facilmente ragione, nei media e nell'opinione pubblica, di un documento che avrà valore soltanto nella sua eventuale applicazione, non nella sua compilazione.

Infatti il messaggio della katjushe, o degli "esplosivi improvvisati" arriva a bersaglio, anche se sorvola le navi che avrebbe dovuto colpire ad Aqaba. Mentre il fronte invisibile dei terroristi si rafforza, e attinge a un pozzo apparentemente inesauribile di volontari, di suicidi assassini, di munizioni, il fronte interno americano barcolla. Riaffiora il mai esorcizzato demonio vietnamita, quello che Bush padre aveva prematuramente proclamato morto per sempre nel 1991, nelle parole di senatori repubblicani moderati, come Chuck Hagel, rappresentante di uno stato della prateria benpensante e timorato di Dio, il Nebraska, che non è certamente la empia San Francisco o la New York storicamente scettica e democratica. «Anche se le differenze sono molti ed evidenti - dice alla Cnn - in Iraq ci stiamo impantanando come in Vietnam». La corte dei neo conservatori freme e s'innervosisce, come dimostra il loro massimo propagandista, William "Bill" Kristol, che dalle pagine del Weekly Standard attacca di nuovo il segretario alla Difesa Rumsfeld, accusando lui di imprevidenza e di errori, per tentare di salvare ancora Bush.

I sondaggi indicano un'opinione pubblica in rivolta contro una guerra che non capisce più e che il Presidente non riesce più a «vendere». Sbocciano fenomeni ancora circoscritti, ma nuovi, come la protesta delle madri accampate davanti al ranch di Bush, dentro il quale il Presidente in ferie «pedala allegramente verso il nulla», come scrive la sua critica più accanita, Maureen Dowd. Non c'è ancora un movimento contro la guerra, una sollevazione importante per il ritiro delle truppe e per riportare i boy e le girl a casa. Ci sono gli elementi, i pezzi di un possibile movimento che la Casa Bianca cerca di tenere distinti, prima che coagulino e spaventino i deputati e i senatori avviati alle elezioni di medio termine fra un anno e producano un fuggi fuggi come quello del senatore Hagel o del fedelissimo senatore Allen della Virginia che ha invitato il presidente a ricevere le madri dei "militi noti" caduti in Iraq.

Bush è preso sempre meno sul serio e l'unico argomento che ancora risuoni con qualche credibilità è il timore che un ritiro dall'Iraq oggi significhi dare la vittoria agli al Zarqawi, Zawahiri o al dimenticato Osama "lo prenderemo vivo o morto" Bin Laden. E anche questa giustificazione ellittica per la continuazione della guerra, tanto simile alle formule usate per il Vietnam, diventa subito oggetto di scherno e dileggio, nelle trasmissioni dei comici più popolari. «Quando hanno chiesto a Bush perché non interrompe le vacanze nel suo ranch e non torna al lavoro - ha scherzato il re della tv serale Jay Leno sulla Nbc - il presidente ha risposto di no, perché non vuol darla vinta alle mucche».

Sono stati molto fortunati, i marinai della Us Navy che hanno già levato l'ancora e stanno uscendo da quel golfo troppo angusto, che credevano sicuro. Bush resta in vacanza nel ranch. Altri soldati e un marine sono morti in Afghanistan. Si aspetta, forse invano, un discorso nel quale il presidente ammetta che se la guerra deve continuare è perché i "buoni" non la stanno vincendo. Soltanto la verità potrebbe essere il collante che impedirà il tracollo del fronte interno americano, se non è già troppo tardi.

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