Da The New York Times del 31/01/2005

Dall'Iraq una sconfitta per tutti gli scettici

di Michael Ignatieff

Perché sono stati così pochi coloro che hanno avvertito anche solo un fremito di indignazione, vedendo morire uccisi nelle strade di Bagdad gli iracheni iscritti nelle liste elettorali? Perché nella stampa non vi è stato che qualche raro briciolo di apprezzamento per le migliaia di iracheni che di fatto si sono candidati a una carica politica a rischio della loro stessa vita? Siamo davvero diventati tutti così disillusi che devono essere gli iracheni a rammentarci che cosa di valido può effettivamente significare una libera elezione?

Spiegare il silenzio intollerabile di queste ultime settimane impone di comprendere in che modo il sostegno alla democrazia irachena sia diventato anch'esso una vittima della caustica animosità che contrassegna tuttora la decisione iniziale di andare in guerra.

Dare vita a libere istituzioni in Iraq: questa è stata la motivazione migliore per essere a favore della guerra - ridottasi ormai a unica motivazione - e a causa di ciò la democrazia in Iraq ha smesso di essere una causa onorevole.

Gli ideologi dell'amministrazione - quelli che hanno redatto il discorso inaugurale del presidente contenente l'immagine di un'America al servizio del "Creatore della Libertà" - sono riusciti in una missione pressoché impossibile: trasformare la democrazia stessa in uno slogan poco raccomandabile.

I liberal non possono sentirsi vincolati a sostenere la libertà in Iraq, nel timore di sembrare collusi con gli arroganti neoconservatori. Neanche gli ideologi contrari alla guerra possono appoggiare gli iracheni, perché ciò imporrebbe loro di ammettere che da politiche cattive e da intenzioni peggiori possono avere origine risultati proficui. E infine ci sono gli ottusi ideologi del mondo arabo - qualcuno anche qui in America - che ritengono che i "ribelli" stiano combattendo una giusta guerra contro l'imperialismo americano. Tutto ciò induce a chiedersi quando è stato che la sinistra ha dimenticato il vero nome di chi ha compiuto attentati contro i seggi, di chi ha ucciso coloro che si iscrivevano alle liste elettorali, di chi ha ammazzato i candidati. Il nome esatto per designare costoro è fascisti.

Ciò che concorre a mettere la sordina alle voci a sostegno della democrazia irachena è forse l'opinione prevalente che ha avvolto il dibattito sull'Iraq alla stregua di una coperta antincendio: tutti credono che l'Iraq sia un disastro, pertanto le elezioni erano destinate al fallimento.

Come mi ha confidato mellifluo un osservatore europeo, con un briciolo di auto-compiacimento stampato in volto, tutto ciò che resta ormai da attendere è l'ultimo atto, l'epilogo. Aspettiamo - mi ha detto - che gli elicotteri decollino dai tetti della green zone di Baghdad, portandosi via gli ultimi americani.

Da parte sua, l'amministrazione di tanto in tanto è parsa appoggiare le elezioni più per creare quello che Henry Kissinger - parlando a proposito del Vietnam - chiamò un "decoroso intervallo" prima dell'inevitabile tracollo, che per offrire agli iracheni una chance di libertà.

A quanto pare, sotto la coperta isolante del disfattismo tutti - pro e contro la guerra che siano - stanno predisponendo le loro strategie di uscita. Quanti erano contro la guerra ci spiegano che la democrazia non la si può imporre sotto la minaccia delle armi, mentre il vero problema è capire se essa può sopravvivere dopo essere stata dirottata sotto la minaccia delle armi.

Nel tentativo di spiegarci perché l'insurrezione abbia messo radici, altri sapientoni ci illustrano quanto è "intrinsecamente" violenta la società irachena, quanto è tribale. Una forma ancor più sottile di condiscendenza vuole che l'Iraq sia stato troppo segnato dal baathismo per concepire pensieri di libertà.

Tutta questa erudita competenza non tiene in nessuna considerazione l'evidenza: gli iracheni vogliono istituzioni libere e i loro leader si sono battuti per dar vita a tali istituzioni in circostanze pressoché impossibili. Si pensi al Grande Ayatollah Ali al-Sistani, che ha chiesto elezioni democratiche nel 2003, mentre i vittoriosi invasori suggerivano invece di procrastinarle a tempo indeterminato. Sin dall'inizio Sistani si è rifiutato di ratificare l'occupazione americana come pure di legittimare l'estremismo sciita. A fronte di provocazioni continue egli ha emarginato gli uomini violenti. I suoi collaboratori sono stati assassinati, i suoi uffici sono stati assaltati, e ciò nonostante dai suoi portavoce non è mai giunto alcun appello volto a istigare al massacro dei sunniti o degli occupanti.

Si pensi ai curdi, che messe da parte le loro guerre tra fazioni hanno presentato un'unica lista di candidati per le elezioni e hanno tenuto a freno i peshmerga, evitando che costoro si impadronissero di Kirkuk, scongiurando così il rischio di una guerra civile per la conquista di una città dall'etnia quanto mai composita.

E infine si pensi ai sunniti moderati, quelli che sono entrati nel governo Allawi e hanno rischiato la collera dei ribelli sunniti. Il disfattismo dei think tank di Washington e degli editorialisti dei quotidiani non ha saputo cogliere il nocciolo della questione: da quando gli americani hanno invaso l'Iraq nel 2003, le uniche manifestazioni di prudenza politica e di coraggio democratico sono state quelle dei tanto disprezzati iracheni, e non quelle dei loro presunti benefattori imperialisti, che tutto sanno prevedere. Poiché ci manca la buonagrazia di ammettere che gli iracheni hanno dato spesso prova di maggior saggezza e coraggio di quanta ne abbiamo data noi, naturalmente non confidiamo che quella saggezza e quel coraggio possano salvare l'Iraq.

L'amministrazione Bush sa che se i suoi errori le sono costati la facoltà di influenzare davvero l'attecchimento della democrazia in Iraq, la sua reputazione nella storia dipenderà moltissimo dal fatto che in quel paese la libertà metta effettivamente radici. I revisionisti sono già al lavoro: il modo migliore di scrivere la storia in anticipo consiste nel rimuovere la colpa dell'eventuale fallimento della democrazia irachena e nell'addossarla agli iracheni stessi. Quanti si opposero alla guerra hanno colluso con questo revisionismo in anticipo, dando per spacciati gli iracheni e queste elezioni, la loro unica chance di libertà.
Annotazioni − Articolo pubblicato il 31/01/2005 su "la Repubblica".
Traduzione di Anna Bissanti.

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