Da Corriere della Sera del 07/04/2005

Artefice dell’Europa moderna nell’epoca della morte di Dio

di Bernard-Henry Levy

Slanciato. Sportivo. Marciatore instancabile. Sciatore. Anima di santo in un corpo d'atleta. Salute di ferro quasi nietzschiana al servizio di una fede sacerdotale. Si fatica, oggi, a immaginare tutto questo. Si fatica, se si è conosciuto soltanto il papa sofferente e livido degli ultimi tempi, in lotta contro la malattia, a figurarselo giovane, glorioso, corpo sovrano, potenza fisica. Eppure, è questa immagine che ricordo meglio. E' quest'immagine che uomini e donne della mia generazione, quelli che l'hanno visto spuntare all'inizio degli anni Ottanta, conserveranno. Rammento le prime cronache di Maurice Clavel, all'indomani della sua elezione, dove si meravigliava di quella forza della natura che succedeva a Giovanni Paolo I. E rammento il mio stupore davanti alle prime fotografie del pontefice, così sorprendentemente vigoroso, sulle piste di Courmayeur o negli aeroporti delle città dove si recava in missione. Un giovane papa. Un papa che, prima d'essere quel morto-vivente di cui il mondo ha vissuto l'ultima agonia, ha prima di tutto significato la ritrovata giovinezza della Chiesa. Cito Nietzsche di proposito. Infatti, per quelli della mia generazione, per quelli che hanno appreso la filosofia sui libri di Nietzsche, appunto, o di Heidegger, Giovanni Paolo II è stato innanzitutto il papa dell'epoca della morte di Dio. D'accordo, è stato il papa della lotta contro il comunismo. Ha avuto il merito, come tutti sanno, d'essere il grande artigiano della caduta del comunismo. Ma, prima di questo, è stato il grande papa contemporaneo dell'ideologia della morte di Dio. E' stato il primo papa, che dico? il primo responsabile di tutte le chiese contemporanee, a capire che il comunismo, come del resto il nazismo, fu, sotto molti aspetti, solo una peripezia di quella lunga storia che è la storia della morte di Dio (Emanuele Severino, su questo stesso giornale, scriveva: «figli legittimi delle "filosofie del male"»; io invece preferisco dire: inevitabili conseguenze dell'evento annunciato nello «Zarathustra»). E' con questa storia che egli si è scontrato. E' contro questa storia che è insorto. Leggete i suoi libri. Tutti i suoi libri. Pensiamo al terribile prezzo che stava per costargli - e costare all'umanità europea - la sua audacia metafisica: Mehmet Ali Agca, Kgb, un proiettile nell'addome, forse l'inizio del calvario.

In effetti, sappiamo quel che diciamo quando affermiamo che fu l'artigiano della caduta del comunismo? Occorre ritornare con il pensiero nel mondo di quell'epoca. Non un'Europa, ma due. Non una, ma due Storie distinte. Una sorta di manicheismo nero secondo cui in queste due Europe ci sarebbero state due umanità differenti, dai destini e dalle speranze divergenti, iscritte in temporalità che non si sarebbero congiunte mai più. Ebbene, ecco arrivare un responsabile politico e spirituale che rifiuta questo postulato. Un responsabile politico e spirituale che trova subito mostruosa l'idea che una metà dell'Europa sarebbe stata destinata alla schiavitù. Questo visionario, inventore dell'Europa moderna, uomo di grande coraggio al quale il continente deve la sua unità ritrovata, è, lo si voglia o no, che si sia cristiani o no, il capo della chiesa cattolica. Fosse solo per questo ruolo nelle avventure moderne della libertà, rendiamo grazie a Wojtyla.

Un ricordo personale di dieci anni fa. E' il maggio 1994. La guerra di Bosnia è al culmine. Attraverso il filosofo cattolico André Frossard, riesco ad ottenere un'udienza in Vaticano per il presidente bosniaco e musulmano Izetbegovic. Ancora la giovinezza del papa. La sua presenza straordinariamente incarnata. Il suo modo, in poco tempo, di trovare le parole per esprimere l'esigenza ecumenica («So che Islam vuole dire pace»), la curiosità teologica («Di quali mezzi disponete per disarmare, da voi, la violenza?») e la rivolta della coscienza universale di fronte a quello che si faceva patire alle popolazioni civili di Sarajevo (frasi da me subito annotate e poi riportate in Le Lys et la cendre , frasi che potevano suonare soltanto come una presa di distanza, da parte dell'uomo di fede, dal pacifismo dominante). Quel giorno, Giovanni Paolo II salvò l'onore. E Giovanni Paolo II, mentre la capitale di un'Europa che non aveva più neanche la triste scusa d'essere, come si diceva una volta, un'«altra» Europa, fu l'unica grande voce a denunciare l'intollerabile.

Un'ultima immagine. Quella del suo viaggio più lungo. Il più corto e, al tempo stesso, il più lungo. Il viaggio che, un bel giorno del 1986, gli fece attraversare il Tevere e spingere la porta della sinagoga di Roma. Per i soliti individui meschini, il Papa quel giorno aveva superato i limiti o non li aveva superati abbastanza. Si trattava spesso delle stesse persone che, fino all'ultimo momento, su certe questioni riguardanti la libertà del corpo, erano infastidite nel vedere che egli rifiutava di cedere al ricatto moderno, che teneva duro sui dogmi e ricordava l'esistenza dei divieti cattolici a chi voleva ascoltarlo (e anche, eventualmente, infrangerli). Per me, per molti altri, quel viaggio fu una grandissima data. Era l'ultimo passo, ma il più difficile, di un cammino iniziato al momento del Concilio di Trento. Il coraggio, di nuovo. La resistenza della memoria. Il pentimento. Tra ebrei e cristiani, era la fine dell'insegnamento del disprezzo.
Annotazioni − Traduzione di Daniela Maggioni.

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