Da Corriere della Sera del 01/02/2005
«Turni lunghi, salari più alti» A Parigi la svolta di Sarkozy
All’Assemblea le correzioni alla legge Aubry sulle 35 ore. Il plauso degli industriali e della destra, frena la sinistra
di Massimo Nava
PARIGI - Più che un addio, suona come un arrivederci a tempi migliori la decisione del governo francese di modificare la legge sull’orario di lavoro a 35 ore, da oggi all’esame dell’Assemblea nazionale. La «riforma della riforma» non modifica la durata legale dell’orario di lavoro settimanale, ma introduce correttivi che, di fatto, possono prolungarlo. Un leader sindacale ha parlato di «35 ore virtuali» e di riforma sterilizzata, ma questo è stato l’impegno preso dal premier, Jean-Pierre Raffarin, all’inizio della legislatura e questo, fra laceranti discussioni ideali e proteste di piazza, resta l’obiettivo.
«Lavorare meno, lavorare tutti», lo slogan della sinistra che concepì la riforma, sembra passato di moda, travolto dai costi sociali, dalle pressioni degli industriali e dagli effetti negativi di una legge che comunque non ha ridotto la disoccupazione.
D'altra parte, il provvedimento che porta il nome di Martine Aubry, l'ex ministro del lavoro, ha modificato comportamenti sociali e mentalità collettiva, cosa peraltro non difficile nella tradizione di un Paese che ama la qualità della vita, il tempo libero, l'impiego e il servizio pubblico.
Nei primi anni di parziale applicazione, soprattutto nelle grandi e medie imprese e nel settore pubblico, la legge Aubry ha moltiplicato «ponti», week- end e vacanze, con ricadute notevoli sul turismo interno e sui consumi, ha permesso alle donne che lavorano di avere più tempo per la famiglia e ha persino regalato spazi di flessibilità ed efficienza ad alcune industrie che hanno usato la legge per riorganizzare il lavoro. È il caso della Renault.
Tuttavia, la legge ha creato anche forti disparità di trattamento nelle piccole imprese dove non viene ancora applicata, il che è in rotta di collisione con il sacro principio dell'«égalité». Ha di fatto bloccato i salari, tanto che cresce fra i lavoratori il fascino prosaico di un altro slogan: «Lavorare di più per guadagnare di più». Ha scontentato e preoccupato l'imprenditoria privata, per i carichi sociali e i freni alla ripresa. Ha innescato il ricatto della delocalizzazione, come nel caso della Bosch, che ha convinto i dipendenti a prolungare l'orario in cambio dell'impegno a non traslocare la produzione nella Repubblica Cèca.
Il Medef, la confindustria francese, ne ha fatto un cavallo di battaglia. «Non può funzionare un Paese che lavora di meno degli altri per legge», è stato lo slogan, ripetuto fino alla noia, dal presidente, Ernst Antoine Seillière, mentre il vice presidente Kessler arrivò a definire le 35 ore una «perversione etica, oltre che economica».
Fra slogan di parte e critiche oggettive, la «legge Aubry» è diventata, non solo in Francia, una specie di totem nell'arena politica. La sinistra vorrebbe difenderlo a tutti i costi, tanto che i sindacati si preparano a una giornata nazionale di protesta il prossimo 5 febbraio. La destra, che, sotto la guida di Nicolas Sarkozy, sembra aver riscoperto i valori dell'impresa e del profitto, punta a infrangere il totem, anche per dare un segnale al Paese, all'Europa e ai mercati internazionali.
Ma le cose non sono così semplici e i sondaggi alla vigilia del dibattito dimostrano che il totem non è di destra o di sinistra, ma trasversale alle categorie, ai sessi e persino alle classi d'età.
Sondaggi a loro volta contradditori, che dividono sia la destra, sia la sinistra, sia il sindacato.
Secondo un istituto specializzato, il 77% dei salariati (81% nel pubblico) vorrebbe conservare l'orario attuale. Ma secondo un sondaggio del «Figarò», il 52% dei quadri è pronto a lavorare di più per guadagnare di più. La percentuale però scende fra le donne, fra i lavoratori con più di 50 anni e nel settore pubblico. Gli studi sui primi anni di applicazione spiegano che gli operai preferiscono una riduzione dell'orario giornaliero, mentre quadri e dirigenti scelgono di accumulare giorni di vacanza, dimostrando che lavorare di meno e fare il week-end è un piacere, non un'idea di sinistra.
Studi e sondaggi soprattutto confermano la difficoltà di adattare un principio o addirittura un'utopia a società complesse, dove il lavoro è parcellizzato e le esigenze individuali sempre più differenziate.
Rispetto ai principi della legge e agli atteggiamenti del mondo del lavoro, il governo della «gauche» e oggi la maggioranza neogollista hanno adottato il pragmatico stratagemma della deroga e scelto una parola magica, «assouplir», che significa ammorbidire gli effetti senza cancellare i principi. Ed è anche il segreto per non scontentare nessuno: chi strilla, chi vuole lavorare di più, chi fa il week-end e chi potrà raccontare che il buon senso ha sconfitto l'utopia.
Quello che si prepara all'Assemblea nazionale è un compromesso che sembra tener conto delle posizioni e degli umori sociali senza mandare in soffitta la legge. In pratica, verrà alzato il tetto delle ore straordinarie consentite (da 180 a 220), sarà possibile «rivendere» i riposi compensativi accumulati e sarà soprattutto favorita la contrattazione di settore. «Assouplir» dovrebbe far rima con il mercato e la ripresa. In attesa di tempi migliori, quando moltiplicare i week-end potrà diventare un'utopia di destra.
«Lavorare meno, lavorare tutti», lo slogan della sinistra che concepì la riforma, sembra passato di moda, travolto dai costi sociali, dalle pressioni degli industriali e dagli effetti negativi di una legge che comunque non ha ridotto la disoccupazione.
D'altra parte, il provvedimento che porta il nome di Martine Aubry, l'ex ministro del lavoro, ha modificato comportamenti sociali e mentalità collettiva, cosa peraltro non difficile nella tradizione di un Paese che ama la qualità della vita, il tempo libero, l'impiego e il servizio pubblico.
Nei primi anni di parziale applicazione, soprattutto nelle grandi e medie imprese e nel settore pubblico, la legge Aubry ha moltiplicato «ponti», week- end e vacanze, con ricadute notevoli sul turismo interno e sui consumi, ha permesso alle donne che lavorano di avere più tempo per la famiglia e ha persino regalato spazi di flessibilità ed efficienza ad alcune industrie che hanno usato la legge per riorganizzare il lavoro. È il caso della Renault.
Tuttavia, la legge ha creato anche forti disparità di trattamento nelle piccole imprese dove non viene ancora applicata, il che è in rotta di collisione con il sacro principio dell'«égalité». Ha di fatto bloccato i salari, tanto che cresce fra i lavoratori il fascino prosaico di un altro slogan: «Lavorare di più per guadagnare di più». Ha scontentato e preoccupato l'imprenditoria privata, per i carichi sociali e i freni alla ripresa. Ha innescato il ricatto della delocalizzazione, come nel caso della Bosch, che ha convinto i dipendenti a prolungare l'orario in cambio dell'impegno a non traslocare la produzione nella Repubblica Cèca.
Il Medef, la confindustria francese, ne ha fatto un cavallo di battaglia. «Non può funzionare un Paese che lavora di meno degli altri per legge», è stato lo slogan, ripetuto fino alla noia, dal presidente, Ernst Antoine Seillière, mentre il vice presidente Kessler arrivò a definire le 35 ore una «perversione etica, oltre che economica».
Fra slogan di parte e critiche oggettive, la «legge Aubry» è diventata, non solo in Francia, una specie di totem nell'arena politica. La sinistra vorrebbe difenderlo a tutti i costi, tanto che i sindacati si preparano a una giornata nazionale di protesta il prossimo 5 febbraio. La destra, che, sotto la guida di Nicolas Sarkozy, sembra aver riscoperto i valori dell'impresa e del profitto, punta a infrangere il totem, anche per dare un segnale al Paese, all'Europa e ai mercati internazionali.
Ma le cose non sono così semplici e i sondaggi alla vigilia del dibattito dimostrano che il totem non è di destra o di sinistra, ma trasversale alle categorie, ai sessi e persino alle classi d'età.
Sondaggi a loro volta contradditori, che dividono sia la destra, sia la sinistra, sia il sindacato.
Secondo un istituto specializzato, il 77% dei salariati (81% nel pubblico) vorrebbe conservare l'orario attuale. Ma secondo un sondaggio del «Figarò», il 52% dei quadri è pronto a lavorare di più per guadagnare di più. La percentuale però scende fra le donne, fra i lavoratori con più di 50 anni e nel settore pubblico. Gli studi sui primi anni di applicazione spiegano che gli operai preferiscono una riduzione dell'orario giornaliero, mentre quadri e dirigenti scelgono di accumulare giorni di vacanza, dimostrando che lavorare di meno e fare il week-end è un piacere, non un'idea di sinistra.
Studi e sondaggi soprattutto confermano la difficoltà di adattare un principio o addirittura un'utopia a società complesse, dove il lavoro è parcellizzato e le esigenze individuali sempre più differenziate.
Rispetto ai principi della legge e agli atteggiamenti del mondo del lavoro, il governo della «gauche» e oggi la maggioranza neogollista hanno adottato il pragmatico stratagemma della deroga e scelto una parola magica, «assouplir», che significa ammorbidire gli effetti senza cancellare i principi. Ed è anche il segreto per non scontentare nessuno: chi strilla, chi vuole lavorare di più, chi fa il week-end e chi potrà raccontare che il buon senso ha sconfitto l'utopia.
Quello che si prepara all'Assemblea nazionale è un compromesso che sembra tener conto delle posizioni e degli umori sociali senza mandare in soffitta la legge. In pratica, verrà alzato il tetto delle ore straordinarie consentite (da 180 a 220), sarà possibile «rivendere» i riposi compensativi accumulati e sarà soprattutto favorita la contrattazione di settore. «Assouplir» dovrebbe far rima con il mercato e la ripresa. In attesa di tempi migliori, quando moltiplicare i week-end potrà diventare un'utopia di destra.
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