Da La Stampa del 17/01/2005

Di fronte a un codice d’onore infranto la collaborazione con lo Stato è la risposta emotiva

Una «svolta» che adesso deve essere difesa

di Francesco La Licata

Che succede a Napoli? Che succede a Scampìa, a Secondigliano? La gente parla e i killer vanno in galera. Forse il mondo si è rivoltato, come fanno intendere le dichiarazioni soddisfatte di ministri, magistrati e investigatori che - per una volta - vengono baciati dalla fortuna di imbattersi in testimoni muniti di udito, vista e parola. Certo, stavolta chi ha visto ha parlato e le conseguenze - logiche - sono sotto gli occhi di tutti: sei assassini in carcere, a cominciare dal minorenne usato come esca per «convincere» la povera Carmela Attrice ad aprire la porta. Lei che diffidava di tutto e di tutti, ben sapendo di portare addosso il fardello di essere madre di «scissionisti» acclarati.

Non è cosa di ogni giorno, nei quartieri dove schiere di massaie sono scese in strada per impedire l’arresto di «guaglioni di malavita», poter gioire della collaborazione di cittadini tradizionalmente ostili, o nella migliore delle ipotesi «neutrali», alle forze messe in campo per ristabilire uno straccio di legalità. E fa piacere osservare che si è forse incrinato il consolidato rapporto di solidarietà, da anni elevato a sistema di convivenza tra malavita e società civile.
Ma è proprio così? Basterà la crepa aperta dai testimoni dell’assassinio di Carmela per abbattere la diga e far tracimare l’acqua che porti in quei territori senza regole la scelta della legalità? La storia, la cronaca recente e passata del Meridione d’Italia non autorizza grandi entusiasmi nelle previsioni di un rapido cambio culturale delle abitudini peggiori, come l’omertà. Spesso si sono verificate piccole scosse, ma sempre normalizzate da lunghi periodi di riassestamento.

L’assenza di una partecipazione collettiva alla lotta alle mafie, riguarda tutto il Sud. L’omertà ha via via preso la connotazione di una vera e propria scelta, spesso al di là della difesa dell’interesse personale di ciscun cittadino. E non sempre l’omertà è stata figlia della paura. Abbiamo assistito al silenzio omertoso anche di fronte ad un semplice incidente stradale. E tutto questo perchè è accaduto raramente che scelte contrarie alla reticenza sfacciata siano state «premiate».
Oggi, probabilmente, siamo di fronte - azzardiamo una interpretazione alla «svolta» di Secondigliano - ad una reazione emotiva di una comunità che ha sopportato già tanto e non ha retto all’estremo sfregio dell’omicidio di una donna, categoria protetta persino dal codice tribale mafioso. Di fronte ad una «regola» disattesa, una «rottura» maggiore: la collaborazione con lo Stato, quasi per lanciare un monito a chi sta insanguinando le strade di Napoli.

E’ accaduto già. A Palermo ricordano la storia triste di Maria Benigno, testimone oculare dell’assassinio del fratello. Riconobbe in foto uno degli assassini: era Leoluca Bagarella, allora meno famoso di oggi anche se era già il cognato di Totò Riina. Quando i poliziotti le mostrarono la foto di «Leoluchino», la testimone ebbe un malore. Guardando quegli occhi che aveva incrociato nella tragica mattinata dell’agguato, vomitò e svenne. Ma firmò il verbale: «E’ lui, lo riconosco». Divenne una sorta di eroina di una società che, in quel momento, le delegava tutta la voglia di ribellione alla mafia che la stessa collettività era incapace di esprimere. Fu contrapposta ad Agata Barresi, la muta «madre disperazione» catatonica di fronte alla mattanza sistematica dei suoi cinque figli. Glieli ammazzavano uno dopo l’altro e lei continuava a tacere: i verbali d’interrogatorio di Agata erano tre righe di generalità e mezza di «Nenti sacciu», nulla so.

Bagarella non fu condannato, gli assassini dei figli di Agata Barresi non si sa chi siano stati. Sono solo esempi, è vero. Ma quanti cittadini, negli anni dell’impunità mafiosa, a Napoli come a Palermo, a Bari piuttosto che a Taurianova, sono stati sospinti verso l’insensibilità istituzionale dall’enorme difficoltà di intraprendere la scelta della legalità? Libero Grassi, imprenditore palermitano, scrisse ai suoi estorsori di «risparmiare le spese di micce ed esplosivi» perchè non avrebbe mai ceduto alle richieste di pizzo. Quando fu ucciso non aveva scorta.

Certo, ne è passato di tempo da allora. Ed abbiamo vissuto una stagione di impegno sul fronte della lotta alla mafia, dopo le stragi di Falcone e Borsellino. Forse eguale attenzione non è stata riservata al «problema di Napoli», abbagliati dalla celebrata «rinascita napoletana». Forse c’è stata una rimozione collettiva, nell’illusione che il restyling esterno avrebbe modificato anche il resto. Non è andata così. Oggi possiamo dire che un primo passo è stato fatto. C’è da augurarsi che i testimoni di Secondigliano trovino terreno fertile per la loro scelta, che siano assistiti quando verrà il momento delle pressioni per ritrattare. La rivolta delle donne che ieri sputavano sui poliziotti ed oggi collaborano con gli investigatori deve essere sostenuta, come lo fu quella della signora Vita Rugnetta, immortalata dalle telecamere mentre mostra alle gabbie del maxiprocesso la foto del figlio perso e grida: «Assassini, me lo avete ucciso». Altre storie del Sud sono andate in modo diverso: Michela Buscemi, sorella di un ragazzo ucciso col sistema della lupara bianca, minacciata, ha dovuto ritirare la costituzione di parte civile al processo. Eppure la rivolta di Napoli è un ottimo segno: deve solo uscire dall’estemporaneità dell’indignazione per diventare costume.

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