Da Corriere della Sera del 03/01/2005

«Il regime mente, i morti qui sono migliaia»

Un prete cattolico: «I funerali celebrati di nascosto». Colpite almeno ottocento isole abitate

di Francesco Battistini

ISOLE COCO (Birmania) - Quei pali che si vedono laggiù, mozziconi fra le mangrovie, erano le palafitte dell’isoletta di Ulu. Ci vivevano i pescatori, fino al 26 dicembre: «Sei famiglie», contano sulle dita il barcaiolo thai e il ragazzino burma. Rivedono queste spiagge per la prima volta, dopo lo tsunami. Strizzano lo sguardo. Non c'è più nessuno: spazzate le case, deserta la costa. «Sono morti tutti», è sicuro il ragazzino del Canale, peluria rada e denti marci, svelto a vendere qualunque cosa il turista di Khaw Thaung chieda, cocaina, viagra o un giro fuori rotta nell’arcipelago sotto Myeik. «Sono morti o sono scappati», è più cauto il vecchio, che campa di questa chiatta scassata e non vuole grane coi birmani. Guardano ancora. Alla fine sono d’accordo: «E’ stato un grande disastro». Il governo di Rangoon dice che qui, al profondo Sud, non è successo nulla. Non possiamo sbarcare, ma dubitare, sì: se questa parte d’oceano s’è salvata, perché si vedono quelle case squartate? E dove sono finiti gli abitanti? Annegati e negati. I morti dello tsunami birmano sono nascosti al mondo.

Niente immagini, nessun nome. Ma ci sono e non sono poche decine: «Migliaia», ci dice a Ranong un prete cattolico di Myanmar, quando rientriamo. Il prete è appena uscito dallo Stato-prigione e arrivato in Thailandia passando per Tavoy, una zona colpita. Poche ore alla parrocchia di San Gaspare, assieme a un seminarista chin e a due suore, un saluto e qualche notizia ai profughi che vivono sul confine thailandese. In una specie di canonica appartata dai riti della domenica, si lascia convincere dal confratello padre Michael a raccontare. «La prego solo di non scrivere nomi: ho un visto a tempo, devo tornare a casa, queste parole possono crearmi problemi». Parole di verità, che non si sente di tenere dentro: «Hanno raccontato al mondo una grande bugia. Cinquantasei vittime, novanta. Una cifra bassa: si riferisce solo alle Isole Coco, travolte meno di quel che temevamo. I morti del maremoto in tutto il Paese, però, sono migliaia. Basta fare i conti. La Birmania ha quattromila isole, ottocento sono abitate. E fa ridere la storia che le Andamane ci hanno protetto: no, noi sappiamo che molte isole sono state colpite dall'onda. E non sono state raggiunte da nessuno, perché ci stanno solo gli "zingari del mare", i nomadi che abitano sulle barche. Nessuno li conosce o sa quanti siano, a parte il governo. Ma è impossibile si siano salvati tutti da una catastrofe del genere. Di loro, non sapremo mai nulla».

Molti sommersi, pochi salvati. E le terribili Sa-Sa-Sa, gli squadroni della morte dell’esercito, che costringono i parenti a seppellire in fretta e a tacere per sempre. Il sacerdote parla per esperienza: «Conosco una famiglia di Victoria Island che ha avuto, questa soltanto, tre morti. So che ce ne sono almeno altre trenta in lutto. Una delle suore che è con me viene da Puthein, sul delta dell’Irrawaddy, una zona che anche il governo include ufficialmente fra quelle devastate: solo lì, i buddisti hanno già bruciato centinaia di corpi. So che anche la comunità musulmana s’è dovuta impegnare per seppellire subito molti cadaveri». Quanti? «Non so dirlo. Comunicare in Birmania è molto difficile e pericoloso, per noi. Il giorno di Santo Stefano, quand’è arrivata l’onda, io stavo dicendo messa in una casa privata di Tavoy: in diverse zone, ci è proibito costruire nuove chiese e celebrare in pubblico». I cristiani di Myanmar sono poco più d’un milione e subiscono persecuzioni religiose che il Dipartimento di Stato americano ha classificato fra le sei più feroci al mondo, al pari di quelle in Iran o in Arabia: vietate cariche pubbliche o militari, distrutti i crocifissi, le Bibbie arrivano di contrabbando dall’India e spesso sono bruciate in piazza, molti bambini sono costretti a studiare in monasteri buddisti, i soldati hanno aumenti di stipendio se sposano (e convertono a forza) le donne cristiane. «Non so quanti siano i nostri morti cattolici - dice il sacerdote -, ma anche i funerali per lo tsunami devono essere celebrati in segreto».

Sulla cartina, con un pennarello, il prete segna a circoletti i posti che sicuramente sono stati travolti. Una mappa che servirebbe a mandare qualche aiuto, se solo i generali birmani l’accettassero: «Il grande ponte di Merguy, distrutto, i villaggi di Kyataw, Tokkya Chaung, Eya, Dedugon, Arna...». Il giorno di Natale, il sacerdote è andato a celebrare sulla penisola di Tavoy: «Era una bella giornata, c’erano tanti turisti. Stranieri, anche. Povera gente. Chissà che fine hanno fatto».

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