Da La Repubblica del 19/11/2004
Originale su http://www.repubblica.it/2004/k/sezioni/politica/dopofrattini/rimpacon...

COMMENTO

Il rimpasto continuo

di Massimo Giannini

Doveva essere "il nuovo inizio". Sta diventando "il grande baratto". Al mercatino della Casa delle Libertà Silvio Berlusconi scambia la poltrona di ministro degli Esteri per Gianfranco Fini con il via libera di An alla rimodulazione dell'Irpef nel 2005. È una mossa politicamente disperata: il quarto inquilino della Farnesina in tre anni non suggerisce propriamente l'idea di un governo stabile e coeso. Ma è una mossa umanamente comprensibile. Il Cavaliere ha investito tutto il suo patrimonio leaderistico sulla riforma fiscale "reaganiana", che Tremonti aveva approntato nel 2001 e che era l'architrave ideologica, liberista e antistatalista, sulla quale si reggeva il suo progetto di centrodestra "rivoluzionario".

Era la versione, ante litteram e casareccia, di quella che poi sarebbe diventata la ownership society di Bush. Quella riforma, tre anni e mezzo fa, era il primo punto del contratto con gli italiani: "meno tasse per tutti". E oggi che persino il Wall Street Journal scrive "quel contratto è ormai rotto", e i sondaggi registrano l'ineluttabile crollo di consensi per il Polo, è naturale che Berlusconi non si rassegni, e cerchi di recuperare "lo spirito del 2001". Per farlo, deve rivedere gli equilibri dell'alleanza, e deve forzare i vincoli della finanza. Il "prezzo" del recupero, posto che riesca, è comunque altissimo.

Il governo, con l'operazione Fini alla Farnesina, non si rafforza affatto. Le modalità formali di questo avvicendamento tra Frattini e il leader di An sono state tortuose e sofferte. Al punto tale da offuscarne del tutto la sostanza e la portata politica. Appena un mese fa Fini aveva avvertito il Cavaliere: "Serve un nuovo patto" e serve anche "un nuovo governo che lo realizzi di qui alla fine della legislatura".

Era l'idea del "nuovo inizio", appunto, che il leader di An aveva coltivato insieme a Marco Follini. Presupponeva una "ridefinzione realistica" delle strategie: niente più "sogni irraggiungibili", come la riduzione generalizzata delle tasse, ma poche cose visibili e praticabili per i cittadini. E soprattutto un "Berlusconi-bis" che, rafforzato e rilegittimato da un passaggio parlamentare, sancisse l'ingresso condiviso di tutti i leader nella nuova compagine di governo. Al servizio di un progetto delimitato nel tempo ma finalmente più chiaro e definito negli obiettivi.

Si è verificato l'esatto opposto di quello che Fini aveva chiesto. In poco più di una settimana il Cavaliere ha detto tutto e il contrario di tutto. Prima ha annunciato "cambiamenti nella squadra". Poi se li è rimangiati, smentendo "ogni ipotesi di un Berlusconi-bis". Ha proclamato concluso l'accordo sulle tasse, sgravi sull'Irap subito, sgravi Irpef rinviati al 2005. Ha spiegato: "Di più non possiamo fare". Due giorni dopo ci ha ripensato: "Dobbiamo fare di più". E ha cominciato a sbraitare contro gli alleati "traditori del Polo", contro i pavidi "eurofurbi" di Bruxelles, contro gli infidi "ragionieri" del Tesoro.

Viene in mente un antico motto in uso tra i politici americani: se i fatti sono contro di te contesta la legge, se la legge è contro di te contesta i fatti, se i fatti e la legge sono contro di te strilla come un dannato.

È quello che ha fatto Berlusconi. Ha spazzato via il suo momentaneo Termidoro. Si è riscoperto il Robespierre all'incontrario di qualche anno fa. È entrato nel cerchio di fuoco, con una logica da "muoia Sansone con tutti i filistei". Pronto a giocarsi le prossime elezioni finanziando la riforma fiscale "anche in deficit". Pronto a dichiarare guerra "all'Europa di Maastricht". Ha trasformato il suo slogan mediatico (meno tasse per tutti) in una superstizione politica. E a chi nella coalizione è più debole ma gli resiste (cioè a Fini) ha proposto il grande baratto: una superstizione (gli sconti Irpef) in cambio di una promozione (il ministero degli Esteri).

Il leader di An dice di non condividere l'avventura di una riforma fiscale senza copertura. Dice di non accettare un braccio di ferro con Bruxelles sul Patto di stabilità. Avrebbe dovuto rifiutare questo scambio politicamente perverso. Avrebbe dovuto dire "no grazie, An resta nella maggioranza, ma io a questo punto preferisco uscire dal governo".

Invece ha accettato, per non perdere la faccia di fronte alla sua gente. Ma approda alla Farnesina in modo indecoroso, quasi deprimente. La sua "promozione" non è quella che aveva sognato: il coronamento di un cursus honorum, il giusto tributo a un leader ex-fascista che ha percorso le tappe di uno sdoganamento storico-culturale e di una ridefinizione identitaria e che oggi è riconosciuto come l'uomo più adatto a rappresentare l'Italia nei grandi consessi internazionali.

La sua "promozione", invece, è soltanto un altro ticket da versare al Cavaliere, per restare in corsa insieme a lui e per non subire l'ennesima umiliazione dentro un partito confuso come An, sul quale già da tempo fatica ad esercitare la sua leadership.

Per questo, oggi, il governo non appare più solido e coeso. E la maggioranza non è più compatta. Fini incassa una vittoria di Pirro. Follini evita per l'ennesima volta l'ingaggio da vicepremier, e si sente sempre più estraneo e lontano da una coalizione che di lui non si fida, e di cui lui non si fida. E Berlusconi, per non rinunciare alla sua superstizione, è costretto a tenere sempre aperto il mercatino della Casa delle Libertà. Ventilando ulteriori, improbabili scambi.

Baccini ministro delle Politiche comunitarie al posto di Buttiglione spostato alla Funzione pubblica, per azzardare l'ultima offerta all'Udc. Oppure Formigoni ministro del Welfare e Maroni governatore della Lombardia, per blandire ancora la Lega.

Implementando, dopo la nona sostituzione nella squadra di governo in appena tre anni e mezzo di legislatura, un'inedita formula istituzionale: il rimpasto a rate, o il rimpasto continuo. Non era questo, il grande condottiero e l'Imprenditore d'Italia al quale gli elettori avevano creduto nel 2001. Viene in mente una delle leggendarie leggi di Murphy: "Sono il loro leader, devo seguirli".

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