Da La Stampa del 15/11/2004
Quindici anni fa l’unificazione tedesca
La politica è ferma al muro di Berlino
di Carlo Bastasin
Quindici anni fa, l'apertura del Muro fu salutata dal mondo come la rivoluzione della libertà. Un evento pacifico inedito nella storia dell'uomo circondato da ebbrezza e nuova speranza. Oggi quella speranza si è inaridita. Il senso di libertà è solo una pallida astrazione.
Col tempo, l'unificazione tedesca è diventata un macigno sul capo dell'Europa. Un rapporto governativo stima che due terzi della mancata crescita tedesca siano dovuti al peso dei nuovi Laender. L'economia tedesca può crescere al massimo del 4%, ma ogni anno Berlino versa a Est il 5% del pil senza risultato. E' come se il Paese rimpicciolisse dell'1% ogni dodici mesi: dopo 15 anni la Germania ha perso il 15% del proprio reddito rispetto alla media europea. Se il freno, simbolico e reale, dell'unificazione tedesca fosse tolto, l'Europa non si confronterebbe, con tanto pathos, col proprio declino economico.
Dopo 15 anni anche la lezione politica dell'unificazione resta muta benché l'Europa stia affrontando, in grande, gli stessi problemi: l'allargamento dei confini, valori costituzionali da condividere, una popolazione sempre meno vitale, sistemi economici da rilanciare. Non c'è carenza di spiegazioni per quello che è andato storto in Germania.
Al contrario forse ce n'è in eccesso: in fondo la macchina dell'unificazione ha funzionato, vi sono le più moderne infrastrutture del mondo, il sistema di sicurezza sociale più generoso. Ma regalare all'Est l'Italia, cioè l'equivalente del suo reddito, non è servito a ridare vitalità all’area un tempo più prospera del mondo. Non è un problema di solidarietà: un euro su tre speso a Est viene da aiuti dell'Ovest, eppure due milioni di individui hanno abbandonato la regione e i suoi sussidi.
Per chi è rimasto, la speranza è diventata presto dipendenza e poi letargia. Ha pesato il vuoto di leadership politica che desse un senso concreto alla libertà: la diversità dell'Est è stata da subito un disvalore che ha reso intollerabile ogni altra diversità. Così molti orientali anziché guardare avanti hanno cercato indietro: come i 200 mila elettori in Sassonia ripiombati sullo zoccolo nazista.
E' eccessivo citare Nietzsche, secondo cui le istituzioni liberali cessano di essere liberali nel momento in cui sono realizzate, ma oggi a Est la libertà d'opinione è così svalutata da essere scesa al sesto posto tra i benefici della democrazia. L'accettazione del sistema politico è crollata ed è in corso un processo di disillusione. Anziché un progetto di società aperta, in effetti, si coltiva con professionismo una retorica dell'Angst, una paura che «rassicura» - perché sotto il suo giogo ogni individuo è di nuovo uguale - e che giustifica l'obbediente attesa di aiuti sociali. Un riflesso da società chiusa, lungo le cui strade infatti è impossibile incontrare stranieri.
L'unificazione tedesca è avvenuta in un momento di estrema accelerazione dei cambiamenti globali tra la Silicon Valley e Shanghai, che l'Europa, per la sua vecchia incapacità di guardare oltre il muro, non ha visto. Ciò ha innescato il declino. Dentro il muro ci si preoccupa solo di organizzare il consenso, attenuando il conflitto tra capitale e lavoro, mentre il vero discrimine era diventato quello tra chiusura e apertura: tra una visione statica e una dinamica della società che coinvolge lobby e imprese, consumatori e finanza.
Il consenso dentro il muro invece accelera il declino e questo a sua volta corrode il consenso.
Man mano che la paura si allarga, i governi nascondono i problemi che hanno respiro più ampio di una legislatura, assumono una logica di protezione e non inducono cittadini e imprese ad aprirsi, proprio come avviene oggi in Germania, in Francia e in Italia. Così le società si atrofizzano. Già nel '49, solo un anno dopo la nascita della Ddr, Karl Jaspers derideva l'illusione delle società chiuse: «La nostra era tecnologica non è un po' più o un po' meno universale: lo è in senso assoluto. Non c'è più nulla che ci è esterno».
La lezione dell'unificazione è che ogni grande problema nei Paesi europei ha e subisce drammatiche ripercussioni globali, anche se non sempre la soluzione è al di fuori dei confini nazionali. Il contesto globale pone la qualità politica anche al di fuori della scelta elettorale. Perché ciò sia coerente con le democrazie, sono necessari leader che non alzino trincee per chiudervi all'interno i propri elettori. Solo con simili governi, i cittadini e le imprese accetteranno di aprirsi e di non avere paura.
Col tempo, l'unificazione tedesca è diventata un macigno sul capo dell'Europa. Un rapporto governativo stima che due terzi della mancata crescita tedesca siano dovuti al peso dei nuovi Laender. L'economia tedesca può crescere al massimo del 4%, ma ogni anno Berlino versa a Est il 5% del pil senza risultato. E' come se il Paese rimpicciolisse dell'1% ogni dodici mesi: dopo 15 anni la Germania ha perso il 15% del proprio reddito rispetto alla media europea. Se il freno, simbolico e reale, dell'unificazione tedesca fosse tolto, l'Europa non si confronterebbe, con tanto pathos, col proprio declino economico.
Dopo 15 anni anche la lezione politica dell'unificazione resta muta benché l'Europa stia affrontando, in grande, gli stessi problemi: l'allargamento dei confini, valori costituzionali da condividere, una popolazione sempre meno vitale, sistemi economici da rilanciare. Non c'è carenza di spiegazioni per quello che è andato storto in Germania.
Al contrario forse ce n'è in eccesso: in fondo la macchina dell'unificazione ha funzionato, vi sono le più moderne infrastrutture del mondo, il sistema di sicurezza sociale più generoso. Ma regalare all'Est l'Italia, cioè l'equivalente del suo reddito, non è servito a ridare vitalità all’area un tempo più prospera del mondo. Non è un problema di solidarietà: un euro su tre speso a Est viene da aiuti dell'Ovest, eppure due milioni di individui hanno abbandonato la regione e i suoi sussidi.
Per chi è rimasto, la speranza è diventata presto dipendenza e poi letargia. Ha pesato il vuoto di leadership politica che desse un senso concreto alla libertà: la diversità dell'Est è stata da subito un disvalore che ha reso intollerabile ogni altra diversità. Così molti orientali anziché guardare avanti hanno cercato indietro: come i 200 mila elettori in Sassonia ripiombati sullo zoccolo nazista.
E' eccessivo citare Nietzsche, secondo cui le istituzioni liberali cessano di essere liberali nel momento in cui sono realizzate, ma oggi a Est la libertà d'opinione è così svalutata da essere scesa al sesto posto tra i benefici della democrazia. L'accettazione del sistema politico è crollata ed è in corso un processo di disillusione. Anziché un progetto di società aperta, in effetti, si coltiva con professionismo una retorica dell'Angst, una paura che «rassicura» - perché sotto il suo giogo ogni individuo è di nuovo uguale - e che giustifica l'obbediente attesa di aiuti sociali. Un riflesso da società chiusa, lungo le cui strade infatti è impossibile incontrare stranieri.
L'unificazione tedesca è avvenuta in un momento di estrema accelerazione dei cambiamenti globali tra la Silicon Valley e Shanghai, che l'Europa, per la sua vecchia incapacità di guardare oltre il muro, non ha visto. Ciò ha innescato il declino. Dentro il muro ci si preoccupa solo di organizzare il consenso, attenuando il conflitto tra capitale e lavoro, mentre il vero discrimine era diventato quello tra chiusura e apertura: tra una visione statica e una dinamica della società che coinvolge lobby e imprese, consumatori e finanza.
Il consenso dentro il muro invece accelera il declino e questo a sua volta corrode il consenso.
Man mano che la paura si allarga, i governi nascondono i problemi che hanno respiro più ampio di una legislatura, assumono una logica di protezione e non inducono cittadini e imprese ad aprirsi, proprio come avviene oggi in Germania, in Francia e in Italia. Così le società si atrofizzano. Già nel '49, solo un anno dopo la nascita della Ddr, Karl Jaspers derideva l'illusione delle società chiuse: «La nostra era tecnologica non è un po' più o un po' meno universale: lo è in senso assoluto. Non c'è più nulla che ci è esterno».
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