Da La Repubblica del 04/10/2004
Originale su http://www.repubblica.it/2004/j/sezioni/esteri/iraq35/ombrasco/ombrasc...

COMMENTO

L'ombra di una doppia sconfitta che fa tremare la Casa Bianca

di Vittorio Zucconi

WASHINGTON - Sulla Casa Bianca si stende l'ombra lunga d'una doppia paura, la paura di perdere la guerra in Iraq e dunque di perdere le elezioni in casa. La si legge nelle parole del segretario alla Difesa, di quel "Rummy" Rumsfeld passato dal sarcasmo della sua leggendaria arroganza bellicista alla mesta ipotesi, ripetuta ieri per la seconda volta in pochi giorni, di alzare le tende e ritirare le truppe prima della mitica "stabilizzazione" e del sempre più immaginario trionfo della democrazia. La si vede nella rabbia con la quale i cloni repubblicani, la famosa "macchina del rumore", sciamano negli studi radio televisivi per minimizzare gli effetti del primo dibattito tv.

Da due giorni i radio show della destra, le tirate furibonde dei maîtres a' penser di chi non pensa, Rush Limbaugh, Laura Schlesinger, Sean Hannity, ringhiano e strepitano che non è vero che Bush abbia perduto e che il balzo in avanti di Kerry nei sondaggi, dove ha raggiunto o scavalcato il presidente, è un fluke, un sussulto passeggero. E lo si capisce soprattutto dagli ordini d'attacco che i generali in Iraq hanno improvvisamente ricevuto, a Samarra, a Falluja, dopo mesi di tattiche temporeggiatrici, per conquistare le città anche a costo di ripetere il classico errore commesso in Vietnam, quello di "distruggere i villaggi per salvarli".

È impressionante assistere allo spettacolo di un'Amministrazione che tradisce nei propri comportamenti la sicumera delle propria affermazioni pubbliche e dunque allarga pericolosamente quel fossato di credibilità tra le parole e i fatti che è sempre esistito, ma che la retorica della "guerra al terrore" e del presidente "leader sicuro" aveva coperto. L'esilissimo ponte che ancora collegava i discorsi di Bush alla realtà si sta assottigliando e sono proprio coloro che avevano bevuto fino in fondo lo slogan della "guerra per esportare la democrazia in Iraq" e così sradicare il terrorismo a segnalare che la Disneyworld nella quale il presidente continua a vivere non convince più. Non sono i professionisti dell'antibushismo, i Bush haters alla maniera di Paul Krugman e Maureen Dowd del New York Times di Dan Rather dalla Cbs ad avere perduto la pazienza, ma sono i fan della prima ora, i conservatori intelligenti e i liberal moderati a dire basta con l'incapacità di questa presidenza e la sua ostinazione a respingere la verità per vincere le elezioni.

Leggiamo sul New York Times Thomas Friedman, il Pulizter e autore di saggi importanti, che aveva colpito con la sua convinta accettazione della guerra in Iraq, due anni or sono. Dopo mesi di assenza per completare un altro libro, Friedman torna a scrivere e la sua condanna è feroce. Bush non ha "una politica" in Iraq, ma usa la guerra "per fare politica", esattamente il contrario di ciò che sostengono i propagandisti, che lui è uomo tutto d'un pezzo che non si preoccupa di sondaggi e di popolarità. "Il presidente ha condotto fin dall'inizio la campagna militare in Iraq come se fosse una parte della sua campagna elettorale". "Siamo nei guai e dobbiamo ammetterlo". Ancora più bruciante il giudizio d'un sostenitore aperto e convinto non solo della guerra, ma di Bush, il commentatore angloamericano Andrew Sullivan, che dalle colonne del Sunday Times e dal suo seguitissimo diario Internet sferza Bush riconoscendo l'ovvio, che questo presidente vive "in un mondo di fantasia per il quale ha solo risposte arroganti od ottimistiche". Se i sondaggi del dopo dibattito indicano Kerry in recupero o addirittura in sorpasso, scrive Sullivan, "è perché per la prima volta il pubblico ha potuto vedere Bush messo di fronte alla realtà e osservare che non ha risposte serie".

Le risposte, fuori dalle chiacchiere e dagli slogan ripetuti dai due candidati, sono nei fatti di queste ore e sono la chiara conferma delle critiche e del dissenso portate dagli ex tifosi della guerra. Gli attacchi contro la città di Samarra, con la presunta "rotta dei terroristi" e la cattura o l'uccisione di centinaia di nemici è, come la ripresa dei bombardamenti su Falluja, la prova che la strategia precedente, imposta da Bush ai generali, era sbagliata e ora Marines e G. I.'s dell'Esercito devono fare quello che gli ordini da Washington impedirono loro di fare. La Casa Bianca e la sua campagna elettorale hanno fame di una "giornata di sole", d'una vittoria da buttare sul tavolo delle elezioni ormai vicinissime, in attesa d'una "sorpresa" che, secondo la maliziosissima Teresa Heinz Kerry, potrebbe essere un Bin Laden estratto dal cilindro pochi giorni prima del voto. Ma questa strategia del chirurgo costretto a riaprire la ferita per operare dove aveva lasciato l'operazione incompleta è un esempio lampante di quella condotta bellica che al tempo del Vietnam fu condannata e bandita come esiziale e uomini come Colin Powell giurarono di non accettare mai più.

È la strategia detta "Mil-Pol", un po' militare e un po' politica, dove le decisioni dei comandanti al fronte sono condizionate dagli interessi politici della dirigenza civile che non si limita, come intelligentemente fece un altro Bush, il padre, nella prima guerra del Golfo, a indicare l'obbiettivo strategico e poi lasciare ai professionisti il compito di scegliere le tattiche e i mezzi. In una guerra ideologica come questa, lanciata non per rispondere a un'aggressione o all'invasione di una nazione alleata, come fu il Kuwait, era inevitabile che gli ideologi della "guerra preventiva" e della "democrazia da esportazione" che avevano infestato e condizionato il governo americano sull'onda dello shock terroristico, tentassero di micromanage le operazioni per servire ai loro obbiettivi propagandistici. Ora, mentre l'ennesima e inutile "spedizione punitiva" contro città come Samarra, che poche ore prima il premier Aallawi che governa per grazia di Bush aveva contato fra le località sicure e pronte per le elezioni, ripropone il fallimento della strategia "Mil-Pol", che introduce addirittura elementi di campagna elettorale nel pasticcio strutturale di politica e di guerra e tocca all'ormai emarginato Rumsfeld, sicuro partente da un possibile Bush 2, ad ammettere che la superpotenza non ce la farà a inventare la democrazia in Iraq e sarà costretta ad andarsene, lasciando gli iracheni a pagare, ancora una volta, il prezzo delle follie delle potenze imperiali euroamericane, dopo avere pagato trent'anni d'una dittatura feroce che proprio i liberators d'oggi avevano contributo a costruire e ad armarsi. Dall'esportazione della democrazia alla denuncia dell'"incompetenza e della mendacità", dalla "guerra leggera" teorizzata da Rumsfeld all'ipotesi del "cut and run", del taglia e fuggi, così in meno di due anni, s'è allungata l'ombra d'un tragico fallimento sulla Disneyland dei nuovi ideologi e del presidente che aveva creduto in loro.

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