Da La Repubblica del 20/09/2004
Originale su http://www.repubblica.it/2004/h/sezioni/esteri/campagnausa1/destinobus...

IL CASO

Il destino di Bush tra due elezioni

di Vittorio Zucconi

ARROCCATA in quel mondo di fantasia che ormai sa di allucinazione, la presidenza Bush ansima verso la data delle elezioni contando i giorni che mancano alla liberazione - 44 - sperando che il castello di sabbia Iracheno tenga ancora per qualche settimana e gli frani addosso. Si parla qui naturalmente delle elezioni presidenziali del 2 novembre, non di quelle elezioni in Iraq nel gennaio del 2005 che devono essere tenute ancora vive nella immaginazione e nella retorica ufficiale, perché da esse dipende l'ultima pretesa di "successo e progresso" in una ex nazione palesemente fuori controllo, dove la guerriglia cresce giorno dopo giorno.

Solo insistendo sul mantenimento di quella promessa, che l'ex funzionario saddamita e agente della Cia, Allawi, verrà a ripetere a Washington nelle prossime ore, i disperati strateghi della guerra in Iraq possono continuare a sostenere che il massacro di militari americani, di civili stranieri, di cittadini iracheni, diciannove mesi dopo la "missione compiuta", ha avuto e ha ancora un senso.

La rielezione di Bush dipende dunque dalle elezioni irachene. Il futuro istituzionale della prima democrazia elettiva del mondo è appeso alla più improbabile delle consultazioni elettorali in una terra senza dove neppure i commissariati di polizia, e figuriamoci i seggi, sono protetti da attentati e stragi. Eppure questa data del gennaio 2005, è l'ultimo dei baracconi ancora in piedi nella fantasyland d'una guerra al terrore che ormai anche i generali Usa e i commentatori inizialmente favorevoli all'invasione, come il progressista Washington Post o il conservatore moderato Andrew Sullivan sul Times di Londra giudicano un sanguinoso pasticcio d'"incompetenza e menzogne".

C'è ormai chi si domanda, come il senatore repubblicano ma onesto Chuck Hagle del Nebraska, se Bush sia caduto vittima d'una "grande illusione", se davvero creda a quello che dice o sia ostaggio d'un gruppo di cortigiani, primo fra tutti il vice Cheney, che, per sopravvivere essi stessi, gli ripetono quello che vuol sentirsi dire e filtrano, come nei bunker assediati, le cattive notizie, spalmandole di vernice rosa.

Bush, per sua ripetuta e stizzita ammissione, non legge i giornali che non suonino la sua canzone, non guarda le tv, se non la Fox News di Murdoch, diretta da un residuato della presidenza Nixon, Roger Aisles, che minimizza le cattive notizie ed esalta quelle buone. Quando il presidente dice, come ha fatto nelle scorse ore, che "nonostante atti di violenza in corso, quel Paese ha ora un forte primo ministro e avanza verso le elezioni democratiche di gennaio", il dubbio che al comandante in capo e al leader degli Stati Uniti venga venduta una verità edulcorata e fasulla.

"Questa descrizione dello stato delle cose in Iraq - scriveva ieri l'editoriale del Washington Post - è blanda al punto di essere disonesta".

Ma per provare al pubblico, ai cittadini elettori, che questa di Bush è pura fiction, occorrerebbe un fatto concreto e questo fatto può essere soltanto l'ammissione che nessuna consultazione elettorale seria è immaginabile in un Iraq dove né gli occupanti americani, né le loro truppe coloniale frettolosamente reclutate e addestrare, controllano il territorio e l'esercito dei clandestini ormai conta decine di migliaia di militanti. Fino a quando l'ipotesi di elezioni a Bagdad regge, la campagna elettorale di Bush regge.

Insieme si terranno in piedi, insieme cadranno e almeno fino alla vittoria del 2 novembre, questa amministrazione dovrà continuare a tenere la posizione, anche di fronte all'anarchia che divora quel paese occupato, al malumore che dai ranghi inferiori della truppa arriva a generali dissidenti come Chiarelli e Conway, alla disperazione delle madri di soldati uccisi che si presentano ai comizi di Bush e della moglie Laura con T-shirt sulle quali hanno scritto: "Tu hai ucciso mio figlio". E vengono arrestate.

Nella ostinazione a difendere l'indifendibile c'è, in nocciolo, la rappresentazione del dilemma nel quale Bush ora si trova. Ammettere che la prospettiva delle elezioni in gennaio è un'illusione, se non si vogliono solo votazioni farsa in stile ceceno, sarebbe come ammettere che non c'erano e non si troveranno mai armi micidiali, che Saddam non rappresentava più, dal '91, una minaccia incombente sugli Usa e l'Occidente, che l'Iraq nulla aveva che fare con le Torri gemelle, che i legami tra Bagdad e il terrorismo islamico fondamentalista erano inesistenti o labili. Vorrebbe dire cominciare a smagliare quella calza di fissazioni, montature e caricature che ben presto, saltato un punto, si dipanerebbe tutta.

E questo George Bush, colui che aveva promesso di riportare "integrità" nel massimo ufficio della nazione, non può e non potrà fare, fino al due novembre, perché il paradosso più tragico di questa stagione elettorale americana è che più George mente più diventa credibile, perché conferma la sola dote che gli elettori gli riconoscano: la coerenza di carattere. In attesa che questa nazione si svegli dall'incantesimo della paura nella quale l'11 settembre l'ha precipitata, come sempre ha fatto nella propria storia dopo gli shock, gli elettori sembrano preferire un testone coerente che sbaglia, a un intelligente e pensoso politicante come Kerry, che oscilla, conoscendo la complessità del mondo e delle sfide. Di lui, di Kerry, anche i sostenitori dicono con amarezza che il suo staff somiglia all'Arca di Noè, perché ha una coppia di consiglieri per ogni funzione, stampa, sondaggi, strategia, politica estera, simbolica allusione al suo avere due opinioni per ogni argomento. Non Bush, che continua a navigare sicuro e impassibile, al timone d'una nave in rotta verso gli scogli.

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