Da Il Mattino del 08/09/2004
Dalla parte della gente contro la guerra
di Vittorio Dell'Uva
Il livello di protezione, oltre il cancello di una bassa palazzina ai margini del quartiere di Karrada sede dell’associazione «Un ponte per...», era nei fatti inesistente. Né poteva essere diversamente anche in una Baghdad disseminata di «difese passive» fatte di blocchi di cemento e di serpentine di filo spinato.
Il volontariato non ha bisogno di trincee, né di uomini-scudo che agitano minacciosi le armi. La sua forza risiede nel contatto quotidiano con le fasce di popolazione più deboli e vulnerabili che hanno bisogno di essere in mille modi assistite. Ci sono porte che persino in Iraq, immerso ormai da più di un anno nella più totale insicurezza, non possono venire sbarrate. La solidarietà «fortificata» non ha mai molto senso.
È scomodo stare dalla parte dei derelitti. C’è da vincere la diffidenza, aggirare gli «apparati», conquistare giorno dopo giorno spazi e fiducia. «Siamo irachene tra gli iracheni» era lo slogan che Simona Torretta e Simona Pari avevano coniato per se stesse. E da irachene provavano a vivere, abbandonando le civetterie dell’abbigliamento occidentale e lasciando che fossero i computer perennemente accesi a tenerle in contatto con il resto del mondo. La sede di «Un ponte per...» è stata insieme il loro ufficio e la loro casa. Mai il problema della sicurezza ha incrinato le loro certezze. Nessun sospetto di «collaborazionismo» con le forze occupanti avrebbe mai potuto sfiorarle. La gratitudine avrebbe dovuto rappresentare la forma migliore di assicurazione. Se la sono guadagnata sul campo con un impegno che non era scandito dalle lancette dell’orologio. C’era sempre un programma da mettere a punto o una emergenza da affrontare, senza agitare bandiere, a Baghdad, come a Falluja o a Najaf assediate. Ed anche storie da raccontare su internet o con collegamenti via radio. Per il loro lavoro hanno conosciuto e descritto un altro Iraq, fatto più di sofferenze che di bollettini di guerra. Con i bambini traumatizzati dai bombardamenti e dalla violenza quotidiana hanno giocato nei cortili delle scuole. Alle madri delle città «ribelli» hanno fatto pervenire acqua e medicinali. Invisibili corridoi umanitari sono stati aperti anche dove c’erano muri che sembravano invalicabili. Uno di questi conduceva a Sadr city la periferia della disperazione dalla quale organizzazioni ben più strutturate si sono tenute lontane.
Andare oltre ogni giorno è la linea delle organizzazioni non governative che, a modo loro, danno risposte alla violenza della guerra. I rischi, va da sè, vengono messi nel conto. Simona Pari e Simona Torretta che fino a due giorni fa si sono dette «serene» non credevano di doverne correre oltre il dovuto, anche se ormai in Iraq ci sono frange oltranziste saldatesi con il terrorismo che provano insofferenza anche verso l’«Occidente dei disarmati». Nella speranza che eliminati gli ammortizzatori che il volontariato produce, risulti sempre più forte l’insofferenza nei confronti delle truppe occupanti.
Il volontariato non ha bisogno di trincee, né di uomini-scudo che agitano minacciosi le armi. La sua forza risiede nel contatto quotidiano con le fasce di popolazione più deboli e vulnerabili che hanno bisogno di essere in mille modi assistite. Ci sono porte che persino in Iraq, immerso ormai da più di un anno nella più totale insicurezza, non possono venire sbarrate. La solidarietà «fortificata» non ha mai molto senso.
È scomodo stare dalla parte dei derelitti. C’è da vincere la diffidenza, aggirare gli «apparati», conquistare giorno dopo giorno spazi e fiducia. «Siamo irachene tra gli iracheni» era lo slogan che Simona Torretta e Simona Pari avevano coniato per se stesse. E da irachene provavano a vivere, abbandonando le civetterie dell’abbigliamento occidentale e lasciando che fossero i computer perennemente accesi a tenerle in contatto con il resto del mondo. La sede di «Un ponte per...» è stata insieme il loro ufficio e la loro casa. Mai il problema della sicurezza ha incrinato le loro certezze. Nessun sospetto di «collaborazionismo» con le forze occupanti avrebbe mai potuto sfiorarle. La gratitudine avrebbe dovuto rappresentare la forma migliore di assicurazione. Se la sono guadagnata sul campo con un impegno che non era scandito dalle lancette dell’orologio. C’era sempre un programma da mettere a punto o una emergenza da affrontare, senza agitare bandiere, a Baghdad, come a Falluja o a Najaf assediate. Ed anche storie da raccontare su internet o con collegamenti via radio. Per il loro lavoro hanno conosciuto e descritto un altro Iraq, fatto più di sofferenze che di bollettini di guerra. Con i bambini traumatizzati dai bombardamenti e dalla violenza quotidiana hanno giocato nei cortili delle scuole. Alle madri delle città «ribelli» hanno fatto pervenire acqua e medicinali. Invisibili corridoi umanitari sono stati aperti anche dove c’erano muri che sembravano invalicabili. Uno di questi conduceva a Sadr city la periferia della disperazione dalla quale organizzazioni ben più strutturate si sono tenute lontane.
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