Da La Repubblica del 12/06/2004
"Cari lettori, vi spiego che cos´è uno scrittore"
Non a caso un amico che fa il mio stesso mestiere mi diceva "Tutti gli editori e i librai sono ricchi e noi che facciamo i libri siamo poveri"
di Gabriel García Márquez
Scrivere libri è un mestiere suicida. Non ce ne sono altri che esigano tanto tempo, tanta fatica, tanta dedizione in rapporto ai benefici immediati. Non credo siano molti i lettori che, finendo di leggere un libro, si domandano quante ore di angosce e di calamità domestiche siano costate all´autore quelle duecento pagine e quanto ha riscosso per il suo lavoro. Per fare in fretta, è meglio dire a chi non lo sa che lo scrittore guadagna solo il dieci per cento di quanto l´acquirente paga il libro.
Sicché il lettore che ha comprato un libro da venti pesos ha contribuito solo con due pesos alla sussistenza dello scrittore. Il resto se lo sono preso gli editori, che hanno corso il rischio di stamparlo, e poi i distributori e i librai. Questo sembrerà ancora più ingiusto se si pensa che i migliori scrittori sono quelli che scrivono di meno e fumano di più, ed è quindi normale che abbiano bisogno di almeno due anni e ventinovemiladuecento sigarette per scrivere un libro di duecento pagine. Il che significa in buona aritmetica che solo per fumare spendono una cifra superiore a quella che riscuoteranno per il libro. Non a caso un amico scrittore mi diceva: «Tutti gli editori, i distributori e i librai sono ricchi e noi scrittori siamo tutti poveri».
Il problema è più critico nei paesi sottosviluppati, dove lo smercio di libri è meno intenso, anche se non è una loro esclusività. Negli Stati Uniti, che è il paradiso degli scrittori di successo, per ogni autore che diventa ricco dalla sera alla mattina grazie alla pacchia delle edizioni tascabili, ci sono centinaia di scrittori dignitosi condannati all´ergastolo sotto la goccia gelida del dieci per cento. L´ultimo caso spettacolare di questi arricchimenti negli Stati Uniti è quello del romanziere Truman Capote col suo libro A sangue freddo, che nelle prime settimane gli ha fruttato mezzo milione di dollari in percentuali e una somma simile per i diritti cinematografici. Invece, Albert Camus, che continuerà a essere presente in libreria anche quando più nessuno si ricorderà dello stupendo Truman Capote, si guadagnava da vivere scrivendo soggetti cinematografici con uno pseudonimo, per poter continuare a scrivere i suoi libri. Il Premio Nobel - ricevuto poco prima della morte - fu solo un sollievo momentaneo per le sue calamità domestiche. Comporta più o meno quarantamila dollari, che di questi tempi sono il prezzo di una casa con un giardino per i bambini. Migliore anche se involontario, fu l´affare che fece Jean-Paul Sartre rifiutandolo, perché col suo gesto si guadagnò una giusta e meritata fama di indipendenza, che fece aumentare la richiesta dei suoi libri.
Molti scrittori rimpiangono l´antico mecenate, ricco e generoso signore che manteneva gli artisti affinché lavorassero senza problemi. Pur avendo un´altra faccia, i mecenati esistono sempre. Ci sono grandi consorzi finanziari che, certe volte per pagare meno tasse, certe altre per correggere l´immagine di squali che si è fatta di loro l´opinione pubblica, e non di rado per tranquillizzarsi la coscienza, destinano somme considerevoli a patrocinare il lavoro degli artisti. Ma a noi scrittori piace fare quello che ci garba, e sospettiamo, forse senza fondamento, che il patrocinatore comprometta l´indipendenza di pensiero ed espressione, e dia origine a compromessi indesiderabili. Quanto a me, preferisco scrivere senza sussidi di nessun tipo, non solo perché sono affetto da uno stupendo delirio di persecuzione, ma anche perché, quando comincio a scrivere, ignoro del tutto con chi sarò d´accordo al termine. Sarebbe ingiusto che alla fine mi trovassi in disaccordo con le idee del patrocinatore, cosa molto probabile in virtù del conflittuale spirito di contraddizione degli scrittori. Così come sarebbe del tutto immorale che per caso mi ritrovassi d´accordo.
Il sistema del patrocinio, tipico della vocazione paternalista del capitalismo, sembra sia una replica all´offerta socialista di considerare lo scrittore nei termini di un lavoratore stipendiato dallo Stato. In principio la soluzione socialista è corretta, perché libera lo scrittore dallo sfruttamento degli intermediari. Ma in pratica, finora e chissà per quanto tempo ancora, il sistema ha dato origine a rischi più gravi delle ingiustizie a cui intendeva rimediare. Il recente caso di due pessimi scrittori sovietici che sono stati condannati ai lavori forzati in Siberia non perché scrivevano male, ma perché erano in disaccordo col patrocinatore, dimostra fino a che punto può essere pericoloso il mestiere di scrivere sotto un regime senza abbastanza maturità per ammettere la verità eterna che noi scrittori siamo dei facinorosi ai quali i corsetti dottrinali, e persino gli interventi legali, vanno più stretti delle scarpe. Personalmente, credo che lo scrittore, in quanto tale, non abbia altro obbligo rivoluzionario che quello di scrivere bene. La sua mancanza di conformismo, sotto qualsiasi regime, è una condizione essenziale che non ha rimedio, perché uno scrittore conformista molto probabilmente è un mascalzone, e con assoluta certezza è un cattivo scrittore.
Dopo questa triste disamina è naturale domandarsi perché noi scrittori scriviamo. La risposta, per forza di cose, è tanto più melodrammatica quanto più sincera. Si è scrittori semplicemente come si è ebrei o si è negri. Il successo è incoraggiante, il favore dei lettori è stimolante, ma questi sono guadagni supplementari, perché un buon scrittore continuerà comunque a scrivere anche con le scarpe rotte, e anche se i suoi libri non si vendono. È una specie di deformazione che spiega benissimo l´assurdità sociale per cui tanti uomini e donne si sono suicidati di fame per fare qualcosa che in fin dei conti, e parlando più che mai sul serio, non serve a niente.
Sicché il lettore che ha comprato un libro da venti pesos ha contribuito solo con due pesos alla sussistenza dello scrittore. Il resto se lo sono preso gli editori, che hanno corso il rischio di stamparlo, e poi i distributori e i librai. Questo sembrerà ancora più ingiusto se si pensa che i migliori scrittori sono quelli che scrivono di meno e fumano di più, ed è quindi normale che abbiano bisogno di almeno due anni e ventinovemiladuecento sigarette per scrivere un libro di duecento pagine. Il che significa in buona aritmetica che solo per fumare spendono una cifra superiore a quella che riscuoteranno per il libro. Non a caso un amico scrittore mi diceva: «Tutti gli editori, i distributori e i librai sono ricchi e noi scrittori siamo tutti poveri».
Il problema è più critico nei paesi sottosviluppati, dove lo smercio di libri è meno intenso, anche se non è una loro esclusività. Negli Stati Uniti, che è il paradiso degli scrittori di successo, per ogni autore che diventa ricco dalla sera alla mattina grazie alla pacchia delle edizioni tascabili, ci sono centinaia di scrittori dignitosi condannati all´ergastolo sotto la goccia gelida del dieci per cento. L´ultimo caso spettacolare di questi arricchimenti negli Stati Uniti è quello del romanziere Truman Capote col suo libro A sangue freddo, che nelle prime settimane gli ha fruttato mezzo milione di dollari in percentuali e una somma simile per i diritti cinematografici. Invece, Albert Camus, che continuerà a essere presente in libreria anche quando più nessuno si ricorderà dello stupendo Truman Capote, si guadagnava da vivere scrivendo soggetti cinematografici con uno pseudonimo, per poter continuare a scrivere i suoi libri. Il Premio Nobel - ricevuto poco prima della morte - fu solo un sollievo momentaneo per le sue calamità domestiche. Comporta più o meno quarantamila dollari, che di questi tempi sono il prezzo di una casa con un giardino per i bambini. Migliore anche se involontario, fu l´affare che fece Jean-Paul Sartre rifiutandolo, perché col suo gesto si guadagnò una giusta e meritata fama di indipendenza, che fece aumentare la richiesta dei suoi libri.
Molti scrittori rimpiangono l´antico mecenate, ricco e generoso signore che manteneva gli artisti affinché lavorassero senza problemi. Pur avendo un´altra faccia, i mecenati esistono sempre. Ci sono grandi consorzi finanziari che, certe volte per pagare meno tasse, certe altre per correggere l´immagine di squali che si è fatta di loro l´opinione pubblica, e non di rado per tranquillizzarsi la coscienza, destinano somme considerevoli a patrocinare il lavoro degli artisti. Ma a noi scrittori piace fare quello che ci garba, e sospettiamo, forse senza fondamento, che il patrocinatore comprometta l´indipendenza di pensiero ed espressione, e dia origine a compromessi indesiderabili. Quanto a me, preferisco scrivere senza sussidi di nessun tipo, non solo perché sono affetto da uno stupendo delirio di persecuzione, ma anche perché, quando comincio a scrivere, ignoro del tutto con chi sarò d´accordo al termine. Sarebbe ingiusto che alla fine mi trovassi in disaccordo con le idee del patrocinatore, cosa molto probabile in virtù del conflittuale spirito di contraddizione degli scrittori. Così come sarebbe del tutto immorale che per caso mi ritrovassi d´accordo.
Il sistema del patrocinio, tipico della vocazione paternalista del capitalismo, sembra sia una replica all´offerta socialista di considerare lo scrittore nei termini di un lavoratore stipendiato dallo Stato. In principio la soluzione socialista è corretta, perché libera lo scrittore dallo sfruttamento degli intermediari. Ma in pratica, finora e chissà per quanto tempo ancora, il sistema ha dato origine a rischi più gravi delle ingiustizie a cui intendeva rimediare. Il recente caso di due pessimi scrittori sovietici che sono stati condannati ai lavori forzati in Siberia non perché scrivevano male, ma perché erano in disaccordo col patrocinatore, dimostra fino a che punto può essere pericoloso il mestiere di scrivere sotto un regime senza abbastanza maturità per ammettere la verità eterna che noi scrittori siamo dei facinorosi ai quali i corsetti dottrinali, e persino gli interventi legali, vanno più stretti delle scarpe. Personalmente, credo che lo scrittore, in quanto tale, non abbia altro obbligo rivoluzionario che quello di scrivere bene. La sua mancanza di conformismo, sotto qualsiasi regime, è una condizione essenziale che non ha rimedio, perché uno scrittore conformista molto probabilmente è un mascalzone, e con assoluta certezza è un cattivo scrittore.
Dopo questa triste disamina è naturale domandarsi perché noi scrittori scriviamo. La risposta, per forza di cose, è tanto più melodrammatica quanto più sincera. Si è scrittori semplicemente come si è ebrei o si è negri. Il successo è incoraggiante, il favore dei lettori è stimolante, ma questi sono guadagni supplementari, perché un buon scrittore continuerà comunque a scrivere anche con le scarpe rotte, e anche se i suoi libri non si vendono. È una specie di deformazione che spiega benissimo l´assurdità sociale per cui tanti uomini e donne si sono suicidati di fame per fare qualcosa che in fin dei conti, e parlando più che mai sul serio, non serve a niente.
Annotazioni − Traduzione di Angelo Morino
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