Da La Repubblica del 08/04/2004
Originale su http://www.repubblica.it/2004/c/sezioni/esteri/iraq17/tornaviet/tornav...

Il vietnam che ritorna

di Vittorio Zucconi

RACCONTA Stanley Karnow, nella sua storia definitiva della guerra in Vietnam, che all'alba del 1968 e della svolta finale negli umori americani, "arrivò il momento nel quale avevamo tutti paura di pensare, perché ogni pensiero portava a conclusioni troppo terrificanti. Che forse noi americani non eravamo i nobili cavalieri sul cavallo bianco, che forse la gente del posto non ci voleva tra i piedi, che forse non saremmo mai dovuti andare in Vietnam". Trentasei anni dopo quei giorni di sbandamento e di ansia, mentre bande di irregolari costringono, con operazioni militari, un esercito che si credeva vittorioso a combattere in otto città irachene, un'altra America confronta la stessa paura di pensare e di guardare avanti.

E risponde allo stesso modo, non con più pensiero, ma con più guerra. I suoi cittadini soldati sono abbattuti a centinaia (30 soltanto da domenica a oggi, 636 in 13 mesi), la sua forza militare immensa è impigliata nella classica guerriglia urbana che annulla ogni vantaggio tecnologico e uno dei principali cantori di questa torva Iliade americana, William Safire, ammette che "questa è la crisi decisiva", ma la sola risposta che il comando civile e militare della nazione americana sa offrire sono nuove azioni, nuovi reparti, nuove escalation, nuove operazioni di "stana e distruggi", perché questo, aggiunge Rumsfeld, "è il test della nostra volontà". L'Iraq non è il Vietnam, ma la reazione della dirigenza nazionale e dell'opinione pubblica è la stessa raccontata dagli storici dell'altro conflitto. È quella che gli psicologi chiamano il "denial", lo stato di negazione nel quale il paziente respinge la diagnosi del proprio male.

Quando il pensiero spaventa, l'America, o chi parla per essa, agisce.

L'azione è il surrogato, la panacea, il tranquillante collettivo, in una cultura e in una società che si costruì prima agendo e poi spiegando. Ma in questa ammirevole qualità, che noi europei cataloghiamo sotto la parola "pragmatismo" e che il generale Kimmit riassume da soldato dicendo che lui "troverà i nemici e li distruggerà, il resto non mi interessa", c'è il seme bivalente di tutti i disastri, come di tutti i trionfi americani. Soprattutto quando la successione di azioni si accavalla in maniera irriflessiva, e muove non da premesse chiare e ideali, come fu la guerra in Europa e nel Pacifico, ma da scenari ideologici.

La negazione, il "denial", è la bugia che raccontiamo a noi stessi e questo "test decisivo", provocato dall'avvicinarsi dell'arbitraria scadenza del 30 giugno, è il prodotto di una serie di bugie nelle quali Washington continua ad avvitarsi, sperando, come il generale Kimmit, che la prossima "action" sia quella risolutiva. Senza rimestare le ormai assodate menzogne diffuse per lanciare l'attacco, anche in quest'ultima fase, dopo la madre di tutte le bugie pronunciata il primo maggio da Bush, il tragicomico "missione compiuta", l'accumulazione di falsità e di formule vuote è la vera matrice della confusione e dell'ansia di oggi. I fatti di Falluja, di Ramadi, di Nassiriya, di Kirkuk, di Najaf, appaiono infatti inspiegabili soltanto se sono visti nella luce delle formule che le autorità americane a Bagdad, imbottite di funzionari del partito repubblicano e di specialisti di pubbliche relazioni spediti per coprire le spalle a Bush, hanno raccontato in questi mesi.

Ricordiamo la sequenza. Gli attacchi isolati che per undici mesi hanno ucciso centinaia di militari coalizzati, ne hanno feriti ormai 3 mila e hanno fatto strage di abitanti locali, furono attribuiti da Washington prima ai "boia chi molla" saddamiti. Poi a sicari pagati pochi dollari prelevati dai fondi segreti e giganteschi del Rais che tirava i fili dal proprio covo segreto. Catturato Saddam in condizioni da clochard, fu tentata la versione dei "combattenti stranieri" filtrati dalle frontiere colabrodo per spiegare la continuazione dello stillicidio, poi arrivarono le "cellule di Al Qaeda", poi i militanti del nuovo Osama, al-Zarkawi, fino ad arrivare al "chierico fanatico" Moqtada al-Sadr che lancia il suo assalto disperato, da un covo all'interno di una moschea. La spiegazione più evidente, che esista una minoranza di iracheni, sciiti come sunniti, che non accettano la pax americana e la via di Bush al nuovo Iraq e siano disposti a morire e uccidere, non è accettabile, perché contraddice alla base l'intero castello teorico dell'operazione Iraqi Freedom. Smonta il "rosy scenario", il copione ottimistico che era stato scritto per il consumo dell'opinione interna, persuasa che l'invasione avrebbe liberato la maggioranza silenziosa degli iracheni oppressi e non liberato la minoranza aggressiva.

Ci si stupisce, fuori dagli Stati Uniti, davanti all'indifferenza o allo stoicismo con il quale i cittadini americani accettano - finora - il conto "amaro", dice Rumsfeld, pagato per rimpiazzare il regime di Saddam Hussein con uno gradito sotto protettorato. Si è spiegata, con buone ragioni, questa apatia con l'assenza della coscrizione, che non minaccia con la temuta cartolina precetto chi non voglia battersi e che dunque circoscrive i danni all'esercito dei "willing", dei cittadini che sono disposti a indossare l'uniforme, e alle loro famiglie. Si evoca a buon diritto il rullo compressore morale dell'11 settembre, che schiaccia molte obbiezioni sotto la formula della risposta al terrorismo e scavalca ogni critica con la formula usata dalla destra europea per esorcizzare il socialista spagnolo Zapatero, che ritirarsi oggi vorrebbe dire "votare per Osama Bin Laden". E rimane sempre vero che la cittadinanza americana, a differenza del pubblico europeo scettico se non cinico, concede sempre un ampio credito morale e politico ai propri leader, prima di accettare il sospetto, per noi implicito, di essere stati buggerati dai governanti. Il Vietnam impiegò quasi 10 anni, non 11 mesi, prima di diventare il Vietnam, nel 1968.

Ma quando la forbice tra il pensiero represso, il "denial", e la realtà si allarga troppo, quando neppure dosi sempre più massicce di azioni riescono a tacitare il dubbio che le azioni stesse siano sbagliate o inefficaci, il popolo di tutti i giorni scatta e si ribella con una furia che a noi europei appare incomprensibile, come incomprensibile era la pazienza di ieri. Su questa crescente divaricazione sta puntando chi ha deciso di lanciare la "intifada" irachena, sapendo che il vero campo di battaglia non sono Falluja e Bagdad, ma è l'America. Chiunque tiri i fili degli "insurgents" sciiti e sunniti sa che non potrà mai sconfiggere le truppe dei generali Abizaid e Kimmit, ma potrà allargare la forbice fra le bugie di questa amministrazione Bush e la realtà raccontata e ripresa dai mass media, sperando che un giorno si alzi un nuovo Walter Cronkite per dire, come disse nel 1968, che "non stiamo vincendo affatto la guerra in Vietnam".

Nel 2004 non ci sono più i Cronkite capaci di indirizzare il pubblico da una cattedra mediatica indiscussa. Nella comunicazione polverizzata in radio, Internet, tv via cavo e satellite, non esiste più un centro della coscienza collettiva che i nemici possano colpire da lontano e influenzare, come Giap e Ho Chi Minh fecero con l'offensiva del Tet nel 1968, perdendo una battaglia militare per vincere una battaglia politica. Nella mediazione informativa dispersa, il presidente è più forte dei suoi critici. Il suo insistente richiamo all'azione e all'inflessibilità è il solo messaggio chiaro, ancora comprensibile e accettabile, anche se inquinato dalla propaganda della stagione elettorale, e il suo rifiuto di pensare i pensieri spaventosi ricordati da Karnow è il salvagente al quale l'America si aggrappa. Non si illudano, i guerriglieri iracheni che bruciano cadaveri e si lanciano all'assalto dei panzer, che un nuovo Vietnam sia prossimo. Per ora, la parola d'ordine dietro la quale il paese marcia, è la stessa che risuona negli studi di Hollywood: "Action".

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