Da La Repubblica del 29/03/2004
Originale su http://www.repubblica.it/2004/c/sezioni/politica/campagna1/gallino/gal...

Il commento

Una ricetta per vivere peggio

di Luciano Gallino

CON LA proposta di sopprimere alcune festività al fine di rilanciare la produzione il presidente del Consiglio dimostra di essere un fine economista; ovvero di essere, in tema di economia, ben consigliato. Un ponte in meno, ha detto, produce un incremento sensibile sul prodotto nazionale. Non c'è dubbio che le cifre gli diano ragione. Il Pil viene prodotto con poco più di 200 giornate lavorative, corrispondenti a 1620 ore effettivamente lavorate in media per occupato.

Una media che combina gli orari più lunghi dell'industria e quelli un po' più brevi del pubblico impiego, gli impieghi a tempo pieno e quelli a tempo parziale. In una giornata di lavoro si produce dunque un mezzo punto percentuale di Pil. Basterebbe allora sopprimere, per dire, sei giornate festive l'anno per incrementare di colpo la crescita del Pil del 3 per cento annuo.

Ci avessimo soltanto pensato prima, l'economia del paese non si troverebbe nella situazione critica che molti lamentano. O forse no. Perché nel ragionamento che suggerisce di lavorare di più per arricchirsi tutti c'è una piccola crepa. Esso implica infatti che l'intera produzione addizionale di beni e servizi eventualmente ottenuta con alcune giornate lavorative in più sia interamente venduta. Il che non sembra davvero realistico.

Moltissime imprese faticano oggi a vendere le quantità di beni che producono con le giornate di lavoro attualmente effettuate. È la radice della crisi che le minaccia. In molti settori industriali esiste un eccesso di capacità produttiva: le aziende potrebbero produrre cento, ma dato che riescono sì e no a vendere settanta, quello producono. È proprio per questo motivo che hanno chiesto, e prontamente ottenuto dal governo con la legge 30 e il relativo decreto attuativo dell'ottobre scorso, nuovi tipi di contratto che permettono di occupare forza lavoro in maniera discontinua, come il lavoro in affitto (detto anche, pudicamente, "in somministrazione") e il lavoro intermittente. In modo da adattare l'occupazione in azienda all'andamento del proprio mercato.

A fronte di queste situazioni, l'aggiunta di alcuni giorni lavorativi al calendario annuo genererebbe presumibilmente più disoccupazione, e più precarietà.
D'altra parte la discussione sulla necessità di provare ad accrescere l'occupazione non già aumentando, bensì diminuendo gli orari di lavoro, va avanti da decenni in tutti i Paesi europei, dal Portogallo alla Finlandia, dall'Irlanda alla Grecia.

Da essa sono scaturiti contratti collettivi e interventi legislativi che hanno portato a ridurre le ore annue effettivamente lavorate pro capite dalle 1800-2000 del 1970 alle 1330-1700 di inizio del XXI secolo, con un parallelo e sostanziale incremento di produttività. Il limite inferiore, nel cennato rango delle ore lavorate pro capite nel 2001, è segnato dall'Olanda, a causa della grande diffusione in tale paese del tempo parziale; mentre quello superiore tocca al Regno Unito. Con le sue 1620 ore l'anno l'Italia supera di circa 50 ore la Francia - nonostante le riduzioni d'orario realizzate in essa con la legge sulle 35 ore, che ha avuto indubbi effetti positivi sull'occupazione - di 100 ore il Belgio, di 170 ore la Germania. Non siamo insomma i più pigri tra gli europei.

Ancora, è la riduzione degli orari di lavoro, non già il loro aumento, che ha permesso di superare crisi aziendali gravissime, come quella della Volkswagen alcuni anni fa. Per tacere di altri dati che possono lasciare indifferenti i fini economisti, ma ai quali i milioni di persone che svolgono altri ordinari mestieri attribuiscono una certa importanza.

Nel 1970, quando in Italia si lavorava 1900 ore l'anno, si viveva quasi 10 anni di meno. Più precisamente, la età mediana dei morti era inferiore a quella odierna di circa 10 anni. Altri fattori hanno sicuramente contribuito a questo straordinario risultato, in primo luogo il sistema sanitario nazionale.

Ma un fattore determinante sono stati l'aumento delle giornate di vacanza, degli svaghi, del riposo, delle cure per la persona, delle attività culturali, delle relazioni sociali, del tempo dedicato ai figli, reso possibile dalla riduzione di oltre 250 ore dell'orario annuo di lavoro.

Proporre oggi di ricominciare a lavorare di più, significa quindi prospettare la possibilità - quali che siano le buone intenzioni del proponente - di ricominciare a vivere peggio, e forse anche meno a lungo. È possibile che il presidente del Consiglio, buttando lì l'idea di lavorare qualche giorno in più l'anno, avesse in mente il caso di qualche altro paese.

Ad esempio il caso della Corea del Sud, dove si lavora tuttora 2.500 ore l'anno. Ma non sembra questo un Paese adatto da prendere a modello per l'Italia, quando si pensi alle condizioni di lavoro, di ambiente, di tutele legislative, di rappresentanza sindacale in esso predominanti.

Oppure quello degli Stati Uniti, dove in effetti le ore annue realmente lavorate superano le 1800, con un considerevole aumento rispetto a un decennio fa. Ma gli americani non lavorano di più per amore del Pil. Lo fanno perché vi sono costretti dai bassi salari. In Usa il salario medio dei lavoratori dipendenti, al di sotto del livello di quadro o capo intermedio (foreman), è infatti tuttora inferiore, in termini reali, a quello del 1973, dopo una forte discesa durata quasi vent'anni, e un parziale ricupero da metà degli Anni '90.

Il salario basso obbliga a fare gli straordinari, a cercarsi due lavori, a lavorare in due in famiglia anche se l'onere per la famiglia è grave. Spinge anche, ovviamente, a fare meno giorni di vacanza e di riposo. Anche questo modello di lavoro e di vita non sembra, in verità, particolarmente attraente.

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