Da Corriere della Sera del 29/03/2004

I populisti non credono al miracolo polacco

di Sergio Romano

VARSAVIA - La piccola chiesa del seminario di Varsavia è a pochi passi dal palazzo presidenziale e si affaccia su una piazza dove sorge la statua di un grande poeta, Adam Mickiewicz, amico di Pushkin e autore di un canto «Alla madre polacca» che suscitò l’ammirazione e la commozione di Mazzini. Alle otto del mattino, sul battito dell’ultimo rintocco, comincia nella chiesa una solenne cerimonia. Mi bisbigliano che l’officiante è Jozef Michalik, vescovo di Przemysl, eletto recentemente, dopo il lungo regno di Jozef Glemp, alla presidenza della Conferenza episcopale. Indossa la mitra e incede verso l’altare appoggiandosi a un grande pastorale d’argento. Le prime file sono occupate da seminaristi in tonaca nera, le spalle coperte da una leggera stola bianca orlata di merletti. Dietro di loro vi è un drappello di suore. Sono piccole, robuste e vestono una uniforme nero-azzurra. Nelle ultime file siedono i fedeli, uomini e donne di tutte le età. Guidata dai seminaristi, la congregazione accoglie il vescovo con un canto liturgico. Alla porta un avviso ricorda le cerimonie per la commemorazione del beato Jerzy Popieluszko, il giovane parroco di un sobborgo di Varsavia che fu rapito dalla polizia segreta l’11 ottobre di vent’anni fa e picchiato a morte.

Ecco la Polonia cattolica, devota, diligente, disciplinatamente fedele alle sue gerarchie. In questi giorni di quaresima i passanti sostano per qualche minuto nelle chiese, s’inginocchiano, dicono mentalmente una breve preghiera, riprendono il cammino dei loro affari. Non vi è chiesa nella città vecchia che non abbia sulla facciata o all’interno una targa in memoria di una delle molte visite che Karol Wojtyla fece nel suo Paese dopo l’elezione al Papato nel 1978. La religione qui non è soltanto fede. E’ anche patriottismo, identità nazionale. Nella chiesa delle Tre croci, un tempio barocco dove la navata centrale è ornata da una doppia fila di bandiere nazionali e reggimentali, una targa in bronzo ricorda ai visitatori il generale Wladyslaw Sikorski, capo del governo polacco in esilio durante la Seconda guerra mondiale, morto in un misterioso incidente aereo al largo di Gibilterra il 4 luglio 1943.

Ma accanto a questo cattolicesimo nazionale, austero, dignitoso e in perfetta sintonia con lo stile della Santa Sede di Giovanni Paolo II, esiste in Polonia anche un cattolicesimo nazionalista e populista che il cardinale Glemp, negli scorsi anni, non è riuscito a domare. La sua «chiesa» è la fondazione «Lux Veritatis» e il suo leader è padre Tadeusz Rydzyk, un prete sui sessant’anni, versione religiosa dei grandi tribuni (Bossi, Haider, Le Pen, Bové) che hanno occupato in questi anni la scena della politica europea. Padre Rydzyk ha un pulpito e un confessionale. E’ Radio Maryja, una emittente che conta circa cinque milioni di «fedeli». Gli ascoltatori intervengono per telefono, raccontano i drammi della loro vita quotidiana, danno sfogo alle loro personali frustrazioni e al rancore per i glaciali tecnocrati di Bruxelles, protestano contro il «governo corrotto», si lasciano sfuggire frequenti brontolii contro gli ebrei a cui attribuiscono almeno una parte delle loro sventure. Sono i «perdenti» della transizione: contadini, operai delle vecchie imprese comuniste, piccolo-borghesi che hanno perduto le mediocri garanzie del regime comunista e non sanno cogliere le occasioni dell’economia di mercato. Dopo essere stato fonte di fierezza e riscossa nazionale, il cattolicesimo può essere in alcune circostanze il rifugio dei delusi e degli arrabbiati.

Il fenomeno è troppo importante per non avere una dimensione politica. Esistono almeno due partiti che pescano consensi in questa palude della società polacca. Il primo è Samoobrona (autodifesa). Il suo leader è Andrzej Lepper, un uomo grosso, forte e combattivo che divenne molto popolare quando trascinò una folla di contadini contro un’azienda di pollame e distribuì ai suoi seguaci le salsicce che aveva trovato in un frigorifero. Il suo popolo è quello dei coltivatori diretti, i suoi nemici sono Bruxelles, le multinazionali, la globalizzazione. Alle ultime elezioni ha raccolto il 10% dei voti, alle prossime (nel 2005) potrebbe conquistare, secondo gli ultimi sondaggi, una percentuale molto più alta, intorno al 25%. Il secondo partito è la Lega delle famiglie polacche, diretto da Roman Giertych, rampollo di una vecchia dinastia nazionalista (il nonno era in politica negli anni Trenta) e fieramente contrario all’ingresso della Polonia nell’Unione Europea. Rappresenta soprattutto i contadini poveri: gruppo sociale che comprende il 27% della popolazione attiva, ma produce meno del 4% del Pil (Prodotto interno lordo). Ha avuto alle ultime elezioni il 7,9% dei voti.

Questi e altri partiti dell’opposizione hanno un bersaglio comune contro il quale lanciano continuamente le loro frecce: la corruzione del governo e della pubblica amministrazione. A giudicare dalle loro accuse la Polonia sarebbe, fra i Paesi dell’Europa ex comunista, uno dei più drammaticamente corrotti. Ne ho parlato con Wanda Rapaczynski, presidente di un grande gruppo editoriale, Agora, che pubblica tra l’altro Gazeta Wyborcza , il giornale diretto da Adam Michnik, uno dei quotidiani più indipendenti e intelligenti della nuova Europa. In un edificio moderno, concepito e arredato come un grande «spazio aperto», Rapaczynski mi spiega senza modestia che i mezzi d’informazione sono la sola vera istituzione democratica del Paese. Quanto alla classe politica, aggiunge, si direbbe che le persone oneste non abbiano alcuna voglia di lasciarsi coinvolgere negli affari dello Stato. La corruzione esiste e gli scandali sono frequenti. Un ministro avrebbe fatto sapere ad alcuni mafiosi che la polizia stava indagando sulle loro attività. La registrazione di nuovi farmaci nelle liste ufficiali del ministero della Sanità sarebbe stata mercanteggiata con alti esponenti dell’amministrazione. Persino il suo gruppo, Agora, è stato testimone e protagonista di una clamorosa vicenda che proverò a riassumere rapidamente.

Agora vorrebbe comprare una stazione televisiva, ma il governo presenta in Parlamento una specie di «legge Gasparri» sul sistema delle comunicazioni che sembra essere scritta in modo da precludere al gruppo ogni possibilità.

Entra in scena a questo punto un impresario televisivo e produttore cinematografico. Si chiama Lew Rywin e ha partecipato alla produzione di alcuni film importanti: «La lista di Schindler» e «Il pianista». Rywin si presenta alla signora Rapaczynski e dichiara di avere per lei un messaggio del primo ministro: se Gazeta Wyborcza cambierà la sua linea editoriale e il gruppo verserà 17 milioni e mezzo di dollari, il progetto di legge verrà modificato e Agora potrà avere la sua televisione. Wanda Rapaczynski lo manda dal direttore del giornale, Michnik registra la conversazione e il testo del colloquio appare qualche mese dopo sulle colonne della Gazeta . Esistono altre versioni, naturalmente, ma questo, per grandi linee, è il «Rywingate»: uno scandalo su cui dovranno pronunciarsi un tribunale e una commissione parlamentare.

Accusato di corruzione, detestato dagli agricoltori, attaccato dall’opposizione populista, dalla stampa indipendente e dai partiti liberal-democratici, il governo socialista di Leszek Miller (un vecchio comunista, già membro del comitato centrale del Partito) è stato abbandonato negli scorsi giorni da una trentina di deputati e ha annunciato che se ne andrà il 2 maggio, un giorno dopo l’ingresso della Polonia nell’Unione.

Dopo avere conquistato insieme a un partito minore (Unione del Lavoro) il 41% dei voti, era precipitato negli ultimi sondaggi al 5% ed era ormai allo stremo delle sue forze. Qualsiasi cosa accada (elezioni anticipate o un governo di transizione fino alla scadenza del 2005) il successore di Miller troverà sul suo tavolo una lunga lista di compiti impopolari. Per adattarsi alle regole dell’Unione ed entrare nella zona dell’euro, la Polonia deve ridurre il debito estero, il debito pubblico e la spesa sociale. Il piano presentato negli scorsi mesi dal vicepremier Jerzy Hausner prevede tagli per 32 miliardi di zloty (circa sette miliardi e mezzo di euro) entro il 2007 e l’innalzamento dell’età della pensione. La medicina è amara, soprattutto per un Paese in cui la disoccupazione si aggira intorno al 20%, ma occorre prenderla. E l’opposizione potrebbe decidere che è meglio lasciare a un governo di transizione la responsabilità di un provvedimento impopolare. Chi andrà al governo dopo il 2005 potrà sostenere, con un po’ di ipocrisia, che la colpa non è sua.

Nel frattempo, per fortuna, l’economia sta andando bene. Dopo la crescita dignitosa ma insufficiente del 2003 (3,9% del Pil), la produzione industriale ha fatto un improvviso balzo in su (19% dall’inizio dell’anno) e la crescita nel 2004 potrebbe sfiorare il 6%. La situazione politica è terribilmente confusa, ma gli «spiriti animali» del Paese sono in buona salute e potrebbero ricevere un salutare shock dagli aiuti comunitari (sussidi agricoli e fondi strutturali) non appena la Polonia sarà entrata nell’Unione. L’Italia, anche se a grande distanza dalla Germania, è il secondo Paese esportatore e importatore. La caduta del dollaro ha favorito le esportazioni polacche (lo zloty ha seguito la valuta americana) e la fabbrica della Fiat in Polonia ne ha tratto vantaggio. Il miracolo polacco, se il Paese non diventerà cronicamente ingovernabile, potrebbe essere dietro l’angolo. A giudicare dai capannelli italiani che ho incrociato nel mio albergo di Varsavia, i nostri industriali lo sanno. A loro e alla Polonia, auguri.

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