Da La Repubblica del 08/10/2003
Originale su http://www.repubblica.it/2003/j/sezioni/politica/immigrazione/gianni/g...

Ultimatum al Cavaliere

di Massimo Giannini

Francesco Storace, tre giorni fa, gli aveva chiesto di "dire qualcosa di destra". Gianfranco Fini, ieri, non l'ha accontentato. Ha detto: "Sono maturi i tempi per concedere il diritto di voto amministrativo agli immigrati". È una stupefacente eresia, per il leader di un partito post-fascista che nasce dalle ceneri del Movimento sociale italiano. È un principio di civile buon senso, per il vicepresidente del Consiglio di un governo liberal-conservatore europeo. Per i precari equilibri della maggioranza, la sortita di Fini è un pugno nello stomaco di An, un dito nell'occhio di Umberto Bossi, un colpo al cuore di Silvio Berlusconi.

Ma prima di tutto questo, per i corretti equilibri di una società multiculturale moderna sarebbe una svolta auspicabile. Il diritto al voto "locale" per gli extracomunitari che lavorano con un regolare contratto, pagano le tasse e hanno i contributi previdenziali, esiste da anni in Spagna, in Svezia, in Norvegia, in Olanda e in Danimarca. È riconosciuto in Gran Bretagna, per gli immigrati dai Paesi del Commonwealth. È caldeggiato dalla stessa Unione europea, che con una risoluzione approvata nel 1997 invita gli stati membri a riconoscerlo agli immigrati regolari e residenti da almeno cinque anni.

La legge 189 sull'immigrazione varata dal Polo nel luglio 2002 non è il massimo, per equità costituzionale e funzionalità amministrativa. Lo dimostrano gli oltre 400 ricorsi che pendono davanti alla Consulta. Ma il ragionamento del vicepresidente del Consiglio è condivisibile sul piano etico-morale e coerente sul piano economico-sociale. "Il cittadino non è una merce né viene ridotto al rango poco dignitoso di produttore di benessere. Non è il calcolo della manodopera: è un uomo. Con la nostra legge entro la fine dell'anno regolarizzeremo 650mila extracomunitari, ai quali abbiamo restituito una cittadinanza piena, offrendo loro la possibilità di integrazione con un lavoro". Fini si spinge anche più in là, ipotizzando persino l'eliminazione delle famigerate "quote" d'ingresso.

In un Paese governato da un centrodestra normale non ci sarebbe nulla di "eversivo", in una presa di posizione del genere. Rientrerebbe a pieno titolo in un filone politico-culturale di centrodestra moderato, inaugurato per esempio in Francia dal ministro degli Interni Nikolas Sarkozy: la sua legge per i sans papiers dell'aprile 2003 mescola fermezza e generosità, pugno di ferro contro i clandestini e guanto di velluto per gli stranieri che vogliono integrarsi. Rifletterebbe l'approccio realista del "doppio binario" anticipato in Italia dal ministro degli Interni Beppe Pisanu, in un'intervista a questo giornale del gennaio 2003: estremo rigore "per fronteggiare gli estremisti", ma "massima apertura a chi si integra e si dissocia dal radicalismo".

Ma in Italia non governa un centrodestra normale. Per questo la mossa di Fini, invece di costruire un dibattito fecondo dentro l'alleanza sul tema cruciale dell'immigrazione, abbatte quel poco che resta della Casa delle Libertà. Una sana proposta di gestione del problema della convivenza tra culture diverse, in un quadro di regole rispettate e condivise, diventa una mossa tattica che finisce solo per destabilizzare la coalizione in vista delle elezioni amministrative (se non addirittura di quelle anticipate). Il vicepremier lancia, a freddo e a sorpresa, una controffensiva politica in piena regola contro la Lega. Lo fa con un "messaggio" severo ma solidale, che non casualmente va a toccare il nervo più sensibile del popolo padano: l'immigrazione.

Ha tre buone ragioni per farlo. La prima: la legge che regola la materia porta anche la sua firma, oltre che quella di Bossi. La seconda: "costituente" europeo, alla vigilia di una tornata di incontri internazionali che lo porteranno da Aznar, da Blair, e finalmente da Sharon, Fini compie un altro passo verso un'evoluzione conservatrice della destra di governo, che finalmente anche in Italia chiede di essere rappresentata. Si inserisce nel solco dei neo-gollisti francesi e dei popolari spagnoli, che lo può affiliare in fretta alla grande famiglia del Ppe. Si sdogana definitivamente dal filone nazional-populista, quello di Haider e del Front National. E lo lascia tutto a Bossi, "sceriffo" di una destra di lotta che purtroppo anche in Italia continua a pretendere di essere rappresentata.

E qui si innesca la terza, buona ragione di Fini. Con questo blitz esce da una lunga fase di insignificante letargo politico, e sposta An ancora più al centro, verso l'omologazione moderata e verso la lista unitaria per le europee. Insieme all'Udc, ma non nelle braccia di Forza Italia. Corre qualche pericolo dentro al suo partito, che è già logorato da una presenza incolore nel governo e adesso fatica a seguirlo su una "provocazione culturale" forte (e oltre tutto non concordata). Ma accetta il rischio, perché ne vede più i benefici che i costi. Sa che l'anima più visceralmente di destra di An è anche quella più visceralmente anti-leghista. Isola Bossi, su un fronte lepenista e sempre più estremista: lo costringe a dire "così si va alla crisi, usciamo noi dalla maggioranza".

In questo modo, chiama in campo Berlusconi. E lo fa pubblicamente, a costo di bocciare il governo di cui è il numero due: "Finora abbiamo galleggiato. Meritiamo un sei meno meno...". Rilancia la sfida direttamente al Cavaliere, stavolta senza sottintesi. "Il premier deve richiamare tutti... Nella coalizione non può esserci qualcuno che ha libera patente di corsa e scorrazza a destra e sinistra, perché tanto parla ai suoi elettori, e altri che al contrario esercitano il senso di responsabilità...".

Sembra un ultimatum in piena regola: "O noi o Bossi". Pronunciato, anche stavolta, insieme a Marco Follini, pronto a dargli pieno appoggio. Può darsi che la rinnovata unione del "sub-governo" An-Udc non produca effetti sul governo Forza Italia-Lega. Può darsi che ne nasca una nuova mediazione al ribasso, faticosamente pilotata dal presidente del Consiglio. Ma una cosa è evidente: il Polo non c'è più. C'è un manipolo di capi, a corto di risorse e in crisi di identità. Ormai vivono di antitesi. Non provano neanche più a cercare una sintesi.

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