Da La Repubblica del 13/07/2003

La vita dei detenuti per terrorismo nella base Usa: celle minime, vista del mare vietata

Nel nuovo inferno di Guantanamo prigionieri sotto un tetto d’acciaio

di Carlo Bonini

Guantanamo – Lo chiamano «Camp Delta». È un immenso specchio rifrangente di metallo, filo spinato e cemento. Un sarcofago schiacciato su mille stie di ferro che segregano 680 prigionieri di 42 paesi dalle 17 lingue e i 23 dialetti. Ha ingoiato i dannati di “X Ray”, il vecchio campo “raggi X", perché se ne diluisse il ricordo, fino a spegnerlo. Almeno così speravano al Pentagono. In ceppi, il 2, il 28 e il 29 aprile del 2002, hanno trascinato i prigionieri nelle loro nuove gabbie a soli duecento metri dal mare. Senza spiegargli che non lo avrebbero mai visto, né sentito. Perché a “Camp Delta”, l’Oceano non è né un suono, né un odore, né un colore. Se il campo non fosse annunciato da una serpentina tra barriere respingenti e garitte di guardia mangiate dalla salsedine, da un cartello che paradosso vuole sia un omaggio alla libertà («Camp Delta. Onore alla difesa della libertà») e se non fosse per quel luccichio di metallo che lo avvolge in una bolla di fuoco a 40 gradi, ci sbatteresti contro senza immaginare quel che nasconde.

Si, perché il sarcofago, con i suoi terrapieni, corridoi, cunicoli, è avvolto lungo l’intero perimetro da un’interminabile banda di un nylon spesso e pesante, color verde bottiglia. Impenetrabile allo sguardo. Di chi è fuori, di chi è dentro.

Il maggiore John Van Natta, aspetta al “Sally gate 8”, la porta di ingresso numero 8. E’ il responsabile di questo termitaio di metallo. Lo chiamano “il dottore”. Non per una laurea in medicina, ma per un phd in “scienza della carcerazione”. Per il suo mestiere da civile, prima che da riservista lo richiamassero sulla baia: direttore del “Miami county correctional facility”, penitenziario di massima sicurezza a nord di Indianapolis. E’ un omone dai modi gentili Van Natta e una passione rivelatrice, con cui intrattiene l’interlocutore mentre si sollevano una decina di chiavistelli, si schiudono due porte ad apertura controllata e con loro la “bandana” di nylon. «Sa, amo collezionare uccelli esotici. Ne ho in gabbia cinquanta coppie. Li tengo in due grandi voliere in giardino... Quando non lavoro, mi rilassa guardarli. A lei piacciono gli uccelli?».

Il filo spinato è un’unica avvolgente spirale. Che corre sopra la testa, lungo palizzate alte dieci metri. Che obbliga il cammino. Per questo chiamano il Campo “the Wire”, il filo. Van Natta: «Faccia attenzione... No, non è elettrificato. A casa mia sì che l’ho elettrificato, ma qui non c’è bisogno... Prego, entri pure. Benvenuto a Camp Delta. Ah, mi raccomando se qualche detenuto le rivolge la parola si giri dall’altra parte. Sono molto furbi. Hanno capito che ogni tanto arrivano dei giornalisti e provano a mandare dei messaggi.. . È incredibile, ma molti di loro parlano un ottimo inglese».

Dal “blocco 1”, devono averlo sentito. Uno dei disperati intona una nenia che trova compagni lungo strada. In una delle gabbie si fa il verso: «Eeeengliiish... Eeeeengliiish...». Due fantasmi in tuta arancione schiacciano il volto contro le stie di acciaio, fino a segnarsi la fronte. Ne stringono la trama, lasciando gonfiare le dita che la afferrano. Guardano fissi nel vuoto. Mostrano un sorriso immoto. Da prede stordite. Van Natta accelera il passo. «Prego. Prego, venga avanti. Nessun contatto con i detenuti».

Abbiamo fatto cinquanta passi. Forse meno. Alle nostre spalle si sono richiuse le porte e la banda di plastica che impedisce lo sguardo. Ma è come se avessimo fatto chilometri. Il perimetro esterno è lì, dietro di noi, ma non se ne avvertono più i rumori. Il mare è ancora più vicino, di fronte a noi, ma ancora la “bandana” ne impedisce lo sguardo e ne filtra l’odore. Siamo al centro di un reticolo di 19 blocchi di detenzione rettangolari da 48 stie ciascuno. Divisi in tre campi (1,2,3), numerati in ordine di costruzione e accomunati da un unico indice di sorveglianza, “massimo”. Anche loro fasciati allo sguardo. Perché da un blocco all’altro non ci si possa né vedere, né sentire. Il camminamento di ghiaia tra i blocchi riflette il calore. Il “dottor” Van Natta rassicura. «Vedrà, ora che entriamo nel blocco sentirà che fresco. . .». Ancora un chiavistello. E una vampata insopportabile. Anche Van Natta, ora, è una maschera di sudore. Indicando il soffitto di cemento armato da cui sbuca un generoso bocchettone orientato ad intercettare la brezza che soffia dal mare e urta il sarcofago, spiega: «In questa zona abbiamo celle vuote e dunque non è attivato il sistema di ventilazione forzata. Ma dove sono occupati i bracci, vento ce n’è... certo, non è l’aria condizionata. Ma, insomma, si può stare».

Sarà. Dove certo non si può proprio stare è nelle stie di acciaio temperato che dovrebbero far dimenticare «X Ray». La società Halliburton, general contractor di cui il vicepresidente degli Stati Uniti Dick Cheney è stato un tempo amministratore delegato, ha incassato dal Pentagono 9 milioni e 700 mila dollari per cancellare con le nuove celle di “Camp-Delta” la conca della vergogna. Ma gli ingegneri della segregazione non sono stati generosi. Van Natta annuncia compiaciuto che, «ora, ogni detenuto ha il suo bagno, la sua acqua corrente, il suo materassino di preghiera». E invita quindi a verificare di persona entrando in una delle tante gabbie vuote. Certo, non c’è paragone con gli uomini ridotti conigli sotto il sole di “X Ray”. Male stie sono rimaste tali. Sigillate alla sommità da un pesante coperchio di cemento e acciaio. Aperte allo sguardo su tutti e quattro i lati, anche se protette da una rete metallica più spessa. Identiche nelle dimensioni. Due metri e mezzo di profondità per 1,8 di larghezza.

Il letto, murato a mezza altezza sul lato sinistro della cella impedisce qualsiasi movimento trasversale. il cesso alla turca a settanta centimetri dalla testa del letto e il lavandino a poco più di ottanta, si mangiano quel mezzo metro di lunghezza che consentirebbe al detenuto di andare almeno oltre i due passi. Ma sì, conviene Van Natta. «Quando il detenuto è in cella può solo sdraiarsi sul letto». Un Corano agganciato alla rete metallica. Un tappetino di preghiera sotto il letto, i libri in distribuzione nei bracci («Ne sono stati ordinati di nuovi per 65 mila dollari qualche settimana fa»), gli scacchi o la dama. Anche se non si capisce bene con chi dovrebbe giocare, visto che è da solo. Magari con il suo vicino di stia. Ammesso che il suo sguardo riesca a penetrare oltre la rete. E poi, «può pregare quando vuole», chiosa Van Natta. Anche oltre le cinque volte comandate dal Corano. «Guardi cosa abbiamo fatto verniciare a fuoco ai piedi di ogni letto». Una freccia nera rivolta alla Mecca. «12.793 chilometri», avverte l’epigrafe.

Il cibo è «religiosamente corretto». Arriva congelato da Norfolk una volta ogni 5 giorni, viene scaldato e servito tre volte al dì (6.30; 11.30; 20.00), ingrassa i corpi (mediamente 6 i chili di peso guadagnato per ogni detenuto). Anche perché, persino nei giorni del digiuno di fede, qualcosa nelle stie arriva comunque, per regolamento. Le razioni K dell’esercito da 3 mila calorie. Nelle loro tre varietà: Burrito, Tortellini al formaggio, Pasta in salsa Alfredo, Intrugli sotto vuoto dalla vaga consistenza e mortificante allusività alla cucina italiana. Scadenza, 2006.
Le tute sono rimaste le stesse. Arancioni. E la dotazione individuale (infradito, asciugamani, due coperte, cuscino, spazzolino, saponetta, copricapo per la preghiera) si è arricchita di short. Il sistema di punizioni o incentivi (dipende da dove lo si guardi) ha invece ora una sua scientificità. I grandi spazi di “Camp Delta” (320 celle sono vuote in attesa di impiego), la diversificazione in 19 blocchi dei 680 disperati che li popolano hanno mosso la fantasia della segregazione. Van Natta — ancora lui – ne illustra il meccanismo con un qualche compiacimento per la sua «semplicità ed efficacia». Ha un phd in “scienza della carcerazione”, ma quel che sta andando a spiegare è né più e né meno che il sistema italiano del “bonus malus” nelle assicurazioni delle autovetture. State a sentire.

«Esistono quattro livelli di detenzione. Al “livello uno” si gode del massimo dei vantaggi. Si può andare a fare l’aria tre volte la settimana per trenta minuti. Che diventano quaranta con i cinque di doccia e i cinque di barba che seguono.A1 “livello due”, i minuti per ogni “aria” diminuiscono. Lo stesso al “tre”. Al “livello quattro” si può uscire al passeggio solo 2 volte. Dunque, solo due docce e solo due barbe». Chiaro. Chi si comporta come si deve, può godere di una spianata di cemento armato al termine del braccio chiusa da gabbie sui quattro lati. E qui, da solo, può correre o dare calci a un pallone («Sapesse quanto sono bravi a giocare», chiosa Van Natta). Ma ecco il “bonus malus”. A Guantanamo ogni detenuto entra al “livello tre di privilegio”. «Se per trenta giorni consecutivi non commette infrazioni, scende di un livello. Diciamo al due. Ma se durante i trenta giorni del due, viola una delle regole del campo, sale di due livelli. E piomba al 4». Proprio come le assicurazioni. Fai un incidente e ti ritrovi su di due classi.

Le regole di cui parla Van Natta, all’osso, sono cinque: «Non rifiutare il cibo; non gridare; non insultare i secondini; non provare ad affrontarli fisicamente, non investirli con getti d’acqua o con secrezioni corporee: urina, feci, saliva. Semplice, mi pare».

“Camp Delta” non è solo un esperimento di segregazione. È un fotogramma della segregazione nelle segregazione. Un cozzo di culture. E Fargo contro Khost. Jacksonville contro Kabul. Lo capisci sulle panche dell’Ocean Galley, “La terrazza sul mare”, un pallone di cemento armato all’esterno del Campo dalla foggia architettonica curiosamente esotica, con oblò sul mare e aria condizionata che sa di unto. E’ la mensa dove, quando “smontano” dai turni di Otto ore, si rifugiano gli “Mp”. I poliziotti militari. Se preferite, i secondini.

Alle 11.30 e alle 18.30, il pranzo e la cena, li trovi chini sui loro sandwich, sui loro hamburgher, sulle ali di pollo fritte. E scopri che a Guantanamo, una scheggia di Islam è segregata e sorvegliata dalla profonda provincia americana.

Non un solo secondino è militare di carriera. Sono riservisti strappati al ventre dell’America. Alle linee delle fabbriche. Alle casse degli shopping mall. Otto mesi nei bracci di Guantanamo per “servire nella Guerra al Terrorismo”, sentirsi degli orgogliosi “veterani”, mettere in banca un pugno di mensilità che aiuti ad andare avanti. Lonnie Morren ha 21 anni. Arriva da un paesone del Michigan. Racconta: «Faccio il fabbro. Hai presente le sedie da giardino? Quelle delle case come si deve. Insomma, mi chiamano e mi ritrovo qui. Incredibile! A sorvegliare dei veri terroristi. Magari tra di loro c’è qualcuno dell’1l settembre... voi giornalisti ne sapete niente? Lo chiedo perché noi non sappiamo come si chiamano quelli dentro le gabbie».

Nei bracci, nessuno chiama i disperati con il loro nome. A “Camp Delta” gli uomini sono numeri. Quelli della loro cella. E come numeri sono riconosciuti e ricordati da chi li sorveglia. «Ti potrei dire che 117 è un osso duro. O che il 18 sono due giorni che non parla», spiega Lonnie facendosi serio. Chiede: «Ci sono italiani?». Sì, almeno Otto.

L’ultimo identificato dagli uomini dell’intelligence, che interrogano in parallelepipedi di cemento armato senza finestre a ridosso del Campo, si chiama Lufti Bin Alì. E’ del 1964 ed è nato in Tunisia. Era stato arrestato a Bologna nel ’97 perché sospettato di essere membro del Gia. Quindi se ne erano perse le tracce.

Lonnie si fa curioso e come lui il commilitone che gli siede accanto: David Romleski, 24 anni, da Colombia, South Carolina, riservista e operaio in una fabbrica di componenti elettrici. Anche lui ha voglia di parlare: «Io mi infilo i guanti la mattina, metto una striscia adesiva a coprire il mio nome sulla mimetica e quando quelli devono uscire, li vesto con il “tre pezzi”. Sai no cos’è il tre pezzi? Quando li leghiamo con un’unica catena alle caviglie, alla cintola, alle mani. Non capisco l’arabo, ma so che mi insultano. Anche perché quando vogliono chiedermi qualcosa mi parlano in inglese». «E’ vero, è vero», interrompe Lonnie. «Una volta mi hanno chiesto in inglese di fargli sentire Elvis Presley. Anche quando chiedono aiuto, gridano in inglese... Quando capita che... insomma, è noto, quando capita che tentino di ammazzarsi». Quando si appendono alle grate delle loro stie. Con un asciugamano annodato alla bell’e meglio. Per farla finita con il sarcofago senza tempo.

E’ accaduto ventotto volte, annota algida la contabilità ospedaliera del campo. «Ventotto volte con diciotto individui». Perché qualcuno ci ha provato più di una volta. Il capitano medico Kelleher, direttore dell’ospedale da campo, ne parla con una qualche laconicità. «Sono stati tutti soccorsi per tempo e si sono ripresi», spiega. «Uno solo non ha ancora recuperato del tutto. Per qualche mese è rimasto attaccato alla macchina della rianimazione e quindi a quella dell’alimentazione forzata. Ora parla e cammina. Certo, ha difficoltà a tenere in mano una tazza...».

La depressione conviene – l’ufficiale medico – è il virus di “Camp Delta”. Lo staff di psichiatri è passato da 3 a 30. I detenuti sotto osservazione sono 90, e almeno la metà di loro assume regolarmente farmaci. Il maggiore Van Natta, che lo ascolta, annuisce: «I detenuti non sanno né come, né quando, né se usciranno mai dalle loro gabbie. E questo è un problema. E’ il problema di Guantanamo. Che aumenta la loro aggressività. Verso gli altri e verso se stessi. Ma non è affar mio. Stiamo combattendo una guerra al terrorismo. E comunque qualcosa stiamo facendo».

Un blocco di «minima sicurezza», “Campo 4”. Dove le tute sono bianche e le celle non sono singole, ma dormitori. Dove si pranza insieme all’aperto e l’aria si fa sulla ghiaia, non sul cemento. Chi passa di lì è a un passo da casa. Dal rimpatrio. Da quando la baia dei dannati ha aperto le sue gabbie sono tornati a casa in 42. Altrettanti — lascia intendere il portavoce della base, il colonnello Barry Johnson potrebbero tornare nei prossimi mesi. Tra loro, verosimilmente, i quattro minori che alloggiano a “Camp Iguana”. Una finestra di umanità nell’universo concentrazionale di Guantanamo. Un appartamento di colore bianco ad un chilometro dal campo. Niente filo spinato, niente gabbie. Un salotto, quattro poltrone, una tv, un frigo, una cucina, due stanze da letto e un televisore. Di più, un simulacro di prato che si affaccia sulla scogliera. Almeno loro, i “ragazzi”, l’Oceano lo possono vedere, sentire, annusare. Possono lasciarsi accarezzare dalla libertà.

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