Da La Repubblica del 30/07/2003
Originale su http://www.repubblica.it/2003/g/sezioni/politica/processidue/finta/fin...

La finta ricucitura

di Massimo Giannini

DOPO SEI giorni di tipica resistenza padana, sguaiata e surreale, Roberto Castelli si è arreso. Il guardasigilli ha annunciato al Senato quello che era logico e inevitabile fin dal primo momento: il Lodo Schifani tutela le cinque alte cariche dello Stato sospendendo i processi, ma non i procedimenti.

Bloccando il dibattimento, non le indagini preliminari. Dunque, il ministero della Giustizia non può non dare via libera alle rogatorie americane dell'inchiesta su Mediaset, che coinvolge il presidente del Consiglio Berlusconi.

A Palazzo Madama Castelli si è arreso combattendo. Da vera "camicia verde", ha difeso la "linea del Po" sulla quale la Lega si è ormai attestata da un paio di mesi: Contro i magistrati di Milano, contro i "nazisti rossi" dell'opposizione, contro i "porci democristiani" della maggioranza. Ha confermato quanto di lui già si conosceva. È un ministro della Giustizia incompetente e approssimativo, ma è un politico altrettanto furbo e spregiudicato.

Dal punto di vista tecnico, la sua grottesca impuntatura sulle rogatorie ha prodotto un solo risultato: congelare inutilmente e pretestuosamente, per oltre un mese, una procedura giudiziaria sulla quale non potevano e non dovevano sussistere dubbi di alcun tipo. La rogatoria americana era stata spedita a Roma il 15 maggio dalla procura di Milano che indaga sui presunti reati di frode fiscale e di falso in bilancio commessi da Mediaset nell'acquisto di film sui mercati esteri. Il 10 giugno il ministero di Giustizia aveva comunicato ai pubblici ministeri che la rogatoria era stata regolarmente trasmessa al dipartimento di giustizia americano. Ma il 23 giugno, giorno di entrata in vigore del Lodo Schifani (la legge che sospende i processi per le alte cariche dello Stato) Castelli aveva bloccato tutto, ed era riuscito, con una mossa illegittima, a farsi rimandare le rogatorie dalle autorità statunitensi.

Il pretesto, che il ministro ha strenuamente rivendicato fino a ieri nell'aula al Senato, è quello noto: la legge non è chiara, forse non sospende solo i processi, ma anche le indagini preliminari (e quindi, se così, rende impossibile il corso delle rogatorie). Oggi scopriamo ciò che già si sapeva: non è così. La legge sospende solo i processi, e non sospende affatto i procedimenti. Se così fosse, come sa ogni studente medio di giurisprudenza, una semplice "condizione d'improcedibilità" si trasformerebbe in una "clausola d'impunità", cioè in una manifesta illegittimità costituzionale. Se così fosse, il Quirinale non sarebbe intervenuto più volte, durante il dibattito parlamentare sul lodo, per delimitarne l'ambito di applicazione, escludendolo espressamente fino a un momento ben preciso della procedura penale: l'elevazione del capo d'imputazione e la richiesta di rinvio a giudizio nei confronti dell'imputato.
Lì finisce il "procedimento", lì comincia il "processo". Fino a quel momento, il pubblico ministero ha mano libera e il lodo non si applica. Da quel momento in poi, viceversa, il gip alza le mani, e il lodo blocca tutto.
Lo sapevano tutti. Solo Castelli ha fatto finta di non saperlo. E ha preteso l'impossibile. Ha chiesto al sovrano potere legislativo della nazione di svilirsi a semplice ufficio legislativo del suo dicastero. Ha chiesto al Parlamento d'"interpretare la norma" che lo stesso Parlamento aveva già approvato. Il presidente della Camera Casini gli ha spiegato che le Camere fanno un altro mestiere. Il ministro, anche in questo caso, ha fatto finta di non capire: ieri ha giustificato il suo via libera alle rogatorie dicendo che il dibattito al Senato ha finalmente fugato i suoi dubbi interpretativi.

Una palese bugia. Ma grazie a questa bugia, l'inchiesta su Mediaset ha subito uno stop di quasi quaranta giorni. Non pochi, visti i tempi stretti dell'istruttoria che vede indagati gli stati maggiori di Mediaset: per Giorgio Vanoni scadranno il 18 ottobre, per Fedele Confalonieri scadranno il 16 dicembre. Dal punto di vista politico, l'assurdo braccio di ferro di Castelli segna un altro passo verso l'eutanasia della coalizione di centrodestra. Ieri a Palazzo Madama gli alleati hanno fatto finta di ricompattarsi. Persino Fini ha ricucito gli strappi, dando atto a Berlusconi di aver convinto Castelli a sbloccare le rogatorie, e dando atto a Castelli di aver obbedito, nonostante abbia subito un ingiusto processo alle intenzioni. Ma questo "fare quadrato" dentro la maggioranza sembra una mossa di pura facciata. Ed anche se il centrodestra si ricompatta contro la mozione di sfiducia del centrosinistra, è la maggioranza ad uscire male da questa vicenda, che appare solo come un altro episodio della logorante guerriglia iniziata nella Casa delle Libertà dopo le amministrative. Il vicepremier che accusa l'opposizione di aver organizzato un "girotondo continuo di fronte a via Arenula"" non può non vedere che, a innestare quel girotondo, non è stato Pancho Pardi, ma i suoi alleati di governo. È stato il leader dei centristi Follini e non Piero Fassino, a dire "o Castelli fa retromarcia, o non è più il nostro ministro della Giustizia".
È stato il sottosegretario dei centristi Vietti, e non Francesco Rutelli, ad aggiungere "o Castelli sblocca le rogatorie, o io mi dimetto".

Stavolta ha perso la Lega, e ha vinto la linea ferma e responsabile dell'Udc. Ma dal voto dei ballottaggi dell'8 giugno ad oggi, il bollettino di guerra dentro la maggioranza fa veramente impressione. Frizioni proprio sul Lodo Schifani, modificato grazie alla sponda offerta al Colle dall'Udc e da Casini. Apertura della "verifica permanente", col documento del Cavaliere accettato dall'Udc, tollerato da An, respinto nei fatti dalla Lega, che pretende "una data per le riforme". Poi An vota contro la maggioranza sulla vendita degli immobili del ministero della Difesa. La Lega vota con l'Ulivo sul disegno di legge di proroga degli sfratti. Nel frattempo proprio Lega e An sabotano insieme Forza Italia e Udc sull'indultino. Deflagra lo scontro sul Dpef: Bossi piega Fini e Follini sulle pensioni. Ancora qualche giorno, ed esplode il caso Sofri, con lo stesso Castelli, sempre lui, che non istruisce la grazia, contro il parere del presidente del Consiglio e del segretario dell'Udc, e con Bossi che ricatta gli alleati dicendo: prima la devolution, poi l'amnistia.

Il singolo destino del ministro della Giustizia, di fronte a questo clamoroso esempio di dissipazione di un capitale politico, è francamente ininfluente. E l'Ulivo fa persino male a spendere energie e risorse per questa scommessa. La vera questione, la questione di fondo, è come possa reggere una maggioranza del genere all'urto degli appuntamenti del prossimo settembre. La legge finanziaria prima di tutto. La legge Gasparri subito dopo. Ciampi, ieri, ha fatto capire qual è la sua posizione: sulle televisioni e sul pluralismo dell'informazione, per ora, la parola spetta al Parlamento. Ma il messaggio del presidente della Repubblica alle Camere è lì, inascoltato da un anno, se la riforma non cambia, la parola tornerà al Quirinale. E per la maggioranza saranno guai seri.

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