Da Il Mattino del 11/04/2003

Agguato suicida contro i marines

Baghdad, kamikaze a un posto di blocco nella periferia: morti e feriti

di Vittorio Dell'Uva

Lo scoppio sembra uno dei tanti nella battaglia non ancora conclusa per il controllo di Baghdad. Ma è un messaggio diretto di morte quello che nel pomeriggio raggiunge i marines. Un kamikaze, arma della disperazione araba, si fa saltare in aria nei pressi di un posto di blocco. Era arrivato a piedi, indossando abiti civili che avrebbero dovuto farlo passare inosservato. Muore e uccide. La notizia raggiunge via radio il comando del terzo battaglione: «Abbiamo perduto un uomo, altri sono feriti». Ma il bilancio potrebbe essere ancora più pesante. L’ufficiale americano riferisce che forse i morti sono tre. Poco più tardi il maggiore Matt Baker fa riferimento a un numero imprecisato di vittime e da New York arriva una notizia che - non escludendo che «soldati americani» siano rimasti uccisi - parla di almeno 4 feriti.
L’incubo degli uomini-bomba si materializza nel cuore della capitale irachena facendo scattare misure di sicurezza che sfiorano l’isteria. L’attentato è stato compiuto a Saddam City, il sobborgo della capitale irachena a maggioranza sciita. I meccanismi di sicurezza scattano in tutta la città. Nella zona lungo il Tigri cominciano a muoversi i tank. La porta d’ingresso dell’hotel Palestine è, di fatto, sbarrata. Ai clienti viene impedito di uscire o rientrare. «Che dormano in auto» sbotta un soldato. Nel piazzale i marines si nascondono dietro i muretti di cinta. Appena cala la sera spuntano i visori notturni che penetrano il buio.
L’allarme coinvolge un ampio settore: l’operazione suicida potrebbe essere la prima di una lunga catena annunciata. «Useremo ogni mezzo per fermare chiunque ci invade», aveva ricordato, tre giorni prima di sparire, il ministro dell’Informazione di Saddam. In Iraq e nella capitale sono rimasti a combattere centinaia di volontari venuti dai Paesi arabi vicini e che hanno messo nel conto di dover un giorno indossare una cintura esplosiva. Formano una milizia che molto più della Guardia Repubblicana, grondante di onore e medaglie, si rifiuta di arrendersi. Anche se corre il rischio di venire annientata.
Già ieri mattina ha lanciato una sfida nell’area di Mansur, a nord a della capitale, contendendo ai marines il terreno. Al fianco dei «fedayn di Saddam» prova a colpire il nemico evitando lo scontro frontale che molte chance non darebbe. Anima uno dei tanti fronti che a Baghdad ancora restano attivi e lungo i quali non si combatte sempre in divisa. Si delinea una resistenza che i settemila soldati americani giunti nella capitale non sono ancora in grado di fronteggiare. Il regime con i suo colpi di coda può ancora contare su piccoli gruppi di assalto che evitano di mostrarsi nelle strade ma dispongono di rifugi sicuri, disseminati in molti quartieri della periferia e che non sentono che la partita è perduta, anche se contro di loro si muovono elicotteri e caccia. Ieri a Dora hanno dato battaglia: ventuno di loro sono rimasti sul campo.
Le trincee di petrolio che non bruciano più lasciano che finalmente il cielo azzurro non sia nascosto da una cappa di fumo nerissimo. Ma il sole non illumina certamente la tregua. Alle porte delle città l’attacco a un convoglio americano in arrivo - contro il quale erano stati utilizzati lanciarazzi - è stato fermato all’alba dall’intervento «risolutore» degli elicotteri Apache. Molte bombe di aereo sono state sganciate su obiettivi non ancora neutralizzati in molte parti della città. Esplosioni sono risuonate ancora lungo le rive del Tigri che sembravano messe definitivamente in sicurezza. Dopo due giorni dal loro ingresso a Baghdad, accolti senza entusiasmo, i marines scoprono che non tutte le «trappole» lasciate da Saddam Hussen possono considerarsi disinnescate.

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