Da Il Manifesto del 18/02/2003

Usa e Ue fra Marte e Venere

di Ida Dominijanni

Vista la marcia pacifista meno antiamericana della storia, battuto sul campo il ritornello della destra di casa nostra che si ostina a bollare di antiamericanismo nostalgico del bipolarismo qualunque critica alle scelte dissennate dell'amministrazione americana, possiamo forse ragionare più pacatamente di quale sia lo scenario politico-culturale retrostante ai contrasti fra Stati Uniti e Europa (una parte dell'Europa) che stanno venendo a galla sulla guerra all'Iraq. E il problema, dice chi se ne intende, non è più il vecchio antiamericanismo della sinistra europea cresciuto sotto la Guerra fredda, che anzi è andato declinando con la progressiva contaminazione degli stili di vita fra le due sponde dell'Atlantico. Il problema, semmai, è una sindrome inedita di reciproco antieuropeismo americano e antiamericanismo europeo, che nasce non da antichi pregiudizi ma dalle nuove divergenze emerse fra Usa e Europa proprio con la fine della Guerra fredda (e con il contemporaneo processo di costruzione della Ue). Sull'altra riva dell'oceano, non si tratta solo del disprezzo con cui Rumsfeld liquida la «vecchia Europa», o del frasario non propriamente politically correct con cui i giornali commentano l'opposizione franco-tedesca alla guerra: «asse della donnola», «scimmie che si arrendono», «struzzi ingrati» e simili. Il fatto è che le «nuove divergenze» appaiono così cruciali da far ipotizzare a qualcuno che se uno scontro di civiltà si delinea all'orizzonte non è quello fra Occidente e Islam né quello fra Occidente e Cina, bensì quello interoccidentale fra Stati Uniti e Europa. E' la tesi di un saggio di Charles A. Kupchan, studioso di relazioni internazionali alla Georgetown University, pubblicato dall'ultimo numero della rivista Aspenia (ne ha parlato sul Corriere della Sera di ieri Paolo Mieli, e sullo stesso Corsera Gianni Riotta aveva segnalato il libro di Kupchan The end of the American Era). S'intende che la tesi è catastrofica e catastrofista, tanto più se usata come deterrente contro qualunque presa di distanza europea dalla politica di Washington; ma merita segnalare l'argomentazione che Kupchan ne fornisce, sintomatica di una visione della costruzione della Ue ben più ottimista di quella che circola fra noi europei.
Sostiene infatti Kupchan che a fare problema alla potenza americana non è solo o tanto la mollezza militare del vecchio continente, quanto la crescita economica e politica dell'Unione europea in sé e per sé. Con l'euro che si consolida, alcune grandi imprese che penetrano il mercato Usa, il progetto «Galileo» che può competere con Echelon, la Germania riunificata, l'allargamento a Est, la Costituzione in via di stesura, l'Europa cresce, mentre la potenza americana declina. La storia, dice Kupchan, potrebbe fare una capriola su se stessa: come la federazione americana nacque emancipandosi dall'impero britannico e superò in potenza gli antenati, così potrebbe accadere alla federazione europea che nasce con il dichiarato intento di emanciparsi dalla supremazia Usa o quantomeno di controbilanciarla.
Ma a ben vedere non sono tanto gli indicatori demografici, economici e istituzionali a dare il senso della divergenza fra le due rive dell'Oceano. Incrociando la lettura di Kupchan con quella di altri interventi su Aspenia, in particolare di Francis Fukujama, noto per le sue tesi - smentite dai fatti - sulla «fine della storia» e Simon Serfaty, studioso delle relazioni fra Usa e Europa, balzano agli occhi tre elementi di distanza culturale profonda fra il vecchio e il nuovo continente. Il primo riguarda ovviamente i due modelli di capitalismo, ultraliberista di là e tuttora temperato dallo stato sociale di qua. Il secondo riguarda la natura del patto sociale, segnato negli Stati uniti da un multiculturalismo che fa crescere la diffidenza verso un'Europa tuttora segnata, viceversa, da intolleranza, razzismo e antisemitismo. Ma è il terzo che potrebbe rivelarsi - si sta rivelando - decisivo, e riguarda la concezione della sovranità, della legalità e della legittimità. Perché mentre gli europei hanno imparato dalla loro tragica storia a imbrigliare le tentazioni e gli eccessi della sovranità nazionale in un ordine internazionale basato sulla legalità, gli Usa, che pure alla costruzione di quell'ordine hanno contribuito all'indomani della seconda guerra mondiale, riscoprono oggi, sulla spinta dell'11 settembre, una concezione assoluta della sovranità statuale in cui la forza dell'esercito nazionale oscura la logica del diritto internazionale. Con il paradosso «tardivo e sconcertante», scrive Serfaty, che mentre l'Europa approda a Kant, gli Stati uniti riscoprono Hobbes. E mentre di qua dall'Atlantico sale la stella di Venere, di là sale quella di Marte.

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