Da La Repubblica del 06/11/2006
Originale su http://www.repubblica.it/supplementi/af/2006/11/06/primopiano/006super...
Cina, la lunga marcia passa per la ricerca
di Paolino Accolla
Nella lunga marcia per diventare superpotenza economica, la Cina è ormai pronta al grande balzo. Forte dei successi nel campo dell’innovazione industriale, non è più solo un conglomerato manifatturiero a bassa tecnologia ma un paese di punta sul fronte della ricerca, deciso a rinnovare l’antica tradizione che ha dato al mondo invenzioni come carta, polvere da sparo e bussola. Stando all’Unesco, l’investimento di Pechino per la ricerca è passato dallo 0,83% del pil nel 1999 all’1,23% nel 2004, pari alla media dell’Unione Europea, superando quello dell’Italia (1,14%), a fronte di un pil uguale: 1.351 miliardi di euro l’Italia e un equivalente di 1.650 miliardi di dollari la Cina. Se il piano quinquennale 20072011 prevede di portare il collocamento per la ricerca al 2% entro il 2010, il presidente Hu Jintao promette che questo toccherà il 2,5% entro il 2020.
Uno studio dell’Università di Amsterdam pone la Cina al quinto posto nella classifica delle spese per la ricerca, con un 6,52% del totale mondiale, dietro a Usa (30,48%), Giappone (8,84%), Gran Bretagna (8,33%), Germania (8,14%) e davanti alla Francia (5,84%). La Cina è tuttavia seconda in un settore strategico come le nanotecnologie, mentre investe sempre più nei settori aerospaziale e nucleare, compreso il campo della fusione. Lo sforzo di Pechino è così riassunto da un funzionario del governo: "Miriamo a creare un sistema d’innovazione tecnologica, con le imprese al centro, orientato al mercato". Come già succede: la spesa per la ricerca nel quinquennio che si chiude quest’anno ha interessato lo sviluppo di progetti sperimentali e la ricerca applicata; meno del 6% è andato alla ricerca di base. Sempre nel 2004 la Cina era quinta nella classifica delle innovazioni con 103.000 brevetti, dietro a Giappone (450.000), Usa, Gran Bretagna e Germania, sotto la spinta di un sistema che punta sull’innovazione, a volte minimale e a volte strategica.
Se il centro di ricerca Asian Lifestyle Lab di Kowloon impiega decine di ingegneri ed esperti di statistica, per studiare come la gente usa le pentole a pressione o indossa gli occhiali da sole, ed elabora tabulati di abitudini di consumo per le aziende manifatturiere, l’impresa tessile Tal di Hong Kong, promette al mercato quanto prima tessuti in kashmire di cotone e lana lavabile. A carburare la macchina è il knowhow importato con joint venture internazionali e il rientro di scienziati formati nelle migliori università americane ed europee. Vedi il caso dell’azienda elettronica Vimicro – da cui è uscito il microchip per macchine fotografiche digitali più diffuso al mondo che lavora in partnership con aziende come Intel, Ibm, Microsoft e Sony. O il caso dell’Università Qinghua di Pechino dove, assieme ad esperti di France Telecom e del gigante elettronico giapponese Nec, si lavora a una videocamera in grado di seguire automaticamente un corpo in movimento.
Ma la chiave di tutto sta nell’aver messo gli atenei al servizio dell’iniziativa industriale, senza per questo rinunciare all’eccellenza di un’accademia specializzata. Tanto che l’estate scorsa l’ente nazionale americano per la ricerca National Science Foundation e il corrispettivo britannico Research Council si sono affrettati ad aprire un ufficio a Pechino, mentre a ottobre Cina e Ue hanno inaugurato l’anno della collaborazione in campo scientifico e tecnologico. Poche settimane fa, inaugurando la nuova sede cinese, il presidente della multinazionale farmaceutica AstraZeneca, James WardLilley, ha previsto che nei prossimi 20 anni le nuove idee "verranno in gran parte dalla Cina". Previsione facile, suggerisce Linmi Tao, docente alla Qinghua, visto che gli studiosi cinesi "fino a cinque anni fa di solito pubblicavano sulle riviste nazionali, e ora pubblicano sulle riviste internazionali". A dare il quadro sono i dati: nel 2003, secondo dati dell’Ue, la Cina ha superato l’Europa per numero di laureati in materie scientifiche e tecniche, con 810.000 diplomi contro 740.000. Il progresso cinese risalta in particolare nel settore delle scienze informatiche: nel 2004 gli Usa hanno sfornato 70.000 laureati, la Cina 600.000 e l’India 350.000. Se tali cifre si fondano sulla demografia, la vera forza del grande drago orientale, va detto ancora, sta nel fatto che, spiega il vice rettore dell’Università di Pechino Jack Wu, in Cina "gli atenei lavorano per l’industria e non per l’accademia".
Uno studio dell’Università di Amsterdam pone la Cina al quinto posto nella classifica delle spese per la ricerca, con un 6,52% del totale mondiale, dietro a Usa (30,48%), Giappone (8,84%), Gran Bretagna (8,33%), Germania (8,14%) e davanti alla Francia (5,84%). La Cina è tuttavia seconda in un settore strategico come le nanotecnologie, mentre investe sempre più nei settori aerospaziale e nucleare, compreso il campo della fusione. Lo sforzo di Pechino è così riassunto da un funzionario del governo: "Miriamo a creare un sistema d’innovazione tecnologica, con le imprese al centro, orientato al mercato". Come già succede: la spesa per la ricerca nel quinquennio che si chiude quest’anno ha interessato lo sviluppo di progetti sperimentali e la ricerca applicata; meno del 6% è andato alla ricerca di base. Sempre nel 2004 la Cina era quinta nella classifica delle innovazioni con 103.000 brevetti, dietro a Giappone (450.000), Usa, Gran Bretagna e Germania, sotto la spinta di un sistema che punta sull’innovazione, a volte minimale e a volte strategica.
Se il centro di ricerca Asian Lifestyle Lab di Kowloon impiega decine di ingegneri ed esperti di statistica, per studiare come la gente usa le pentole a pressione o indossa gli occhiali da sole, ed elabora tabulati di abitudini di consumo per le aziende manifatturiere, l’impresa tessile Tal di Hong Kong, promette al mercato quanto prima tessuti in kashmire di cotone e lana lavabile. A carburare la macchina è il knowhow importato con joint venture internazionali e il rientro di scienziati formati nelle migliori università americane ed europee. Vedi il caso dell’azienda elettronica Vimicro – da cui è uscito il microchip per macchine fotografiche digitali più diffuso al mondo che lavora in partnership con aziende come Intel, Ibm, Microsoft e Sony. O il caso dell’Università Qinghua di Pechino dove, assieme ad esperti di France Telecom e del gigante elettronico giapponese Nec, si lavora a una videocamera in grado di seguire automaticamente un corpo in movimento.
Ma la chiave di tutto sta nell’aver messo gli atenei al servizio dell’iniziativa industriale, senza per questo rinunciare all’eccellenza di un’accademia specializzata. Tanto che l’estate scorsa l’ente nazionale americano per la ricerca National Science Foundation e il corrispettivo britannico Research Council si sono affrettati ad aprire un ufficio a Pechino, mentre a ottobre Cina e Ue hanno inaugurato l’anno della collaborazione in campo scientifico e tecnologico. Poche settimane fa, inaugurando la nuova sede cinese, il presidente della multinazionale farmaceutica AstraZeneca, James WardLilley, ha previsto che nei prossimi 20 anni le nuove idee "verranno in gran parte dalla Cina". Previsione facile, suggerisce Linmi Tao, docente alla Qinghua, visto che gli studiosi cinesi "fino a cinque anni fa di solito pubblicavano sulle riviste nazionali, e ora pubblicano sulle riviste internazionali". A dare il quadro sono i dati: nel 2003, secondo dati dell’Ue, la Cina ha superato l’Europa per numero di laureati in materie scientifiche e tecniche, con 810.000 diplomi contro 740.000. Il progresso cinese risalta in particolare nel settore delle scienze informatiche: nel 2004 gli Usa hanno sfornato 70.000 laureati, la Cina 600.000 e l’India 350.000. Se tali cifre si fondano sulla demografia, la vera forza del grande drago orientale, va detto ancora, sta nel fatto che, spiega il vice rettore dell’Università di Pechino Jack Wu, in Cina "gli atenei lavorano per l’industria e non per l’accademia".
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