Da Pagine di Difesa del 12/07/2006
Originale su http://www.paginedidifesa.it/2006/defusco_060712.html

Parte la campagna anti-armi leggere in Africa orientale

di Luca de Fusco

Si è conclusa di recente a New York una conferenza delle Nazioni Unite finalizzata a reprimere in tutto il mondo il traffico illecito di armi leggere (Salw, Small Arms & Light Weapons). La campagna è iniziata già da alcuni anni ed è riuscita a coinvolgere finora, almeno formalmente, la maggior parte dei Paesi aderenti alle Nazioni Unite. Si nota una forte spinta al progetto da parte di Paesi medi (Regno Unito, Olanda, Paesi nordici), le cui produzioni ed esportazioni, si noti, sono irrilevanti. Molto freddi rimangono invece i grandi (Usa, Urss, Cina), protagonisti principali del commercio di Salw e sulle cui esportazioni non esistono dati attendibili. Strenuo oppositore rimane lo Nra americano, che sostiene di voler tutelare i diritti dei cittadini Usa al possesso di armi.

Dopo alcune campagne completate con alterni successi in Paesi disparati (dal Brasile al Mozambico, dalla ex-Yugoslavia al Salvador), è ora la volta di una delle zone più calde del pianeta : l’Africa Orientale-Corno d’Africa. Se ne è fatto patrocinatore l’ente di cooperazione regionale, Igad, composto da Etiopia, Eritrea, Gibuti, Kenya, Somalia, Uganda, Sudan che ha cooptato per l’occasione anche la Tanzania e il Rwanda. Va rilevato almeno che, grazie al contributo di analisti seri e capaci, il programma d’azione dell’Igad ha messo a fuoco il fatto che il problema coinvolge intere comunità e va quindi affrontato su questo piano. Allarmante risulta anche la facilità con cui i criminali si riforniscono di armi.

Com’è noto, la maggior parte di questi Paesi hanno gravi probemi interni e guerre vere e proprie. D’altra parte, loro vicini che godono di minori tensioni sociali risentono gravemente della diffusione di armi, diretta conseguenza dello spostamento di milioni di profughi tra cui sono sempre numerosi ex militari ed ex miliziani. In ordine cronologico, gli eventi che hanno determinato l’afflusso nella regione di enormi quantitativi di armi sono stati le guerre civili in Congo e in Sudan negli anni 60, di cui le attuali sono continuazioni, la rivoluzione anti-monarchica in Yemen, la politica megalomane della Libia di Gheddafi, le guerre civili in Uganda, la secessione Eritrea, la dissoluzione dello Stato somalo. Nel corso di tali eventi gli arsenali riforniti durante la Guerra Fredda di sono dischiusi mettendo in circolazione milioni di Salw.

Una particolare categoria della popolazione, i popoli nomadi pastorali, è stata costretta dall’insicurezza e dalla competizione reciproca ad armarsi in modo e misura senza precedenti. Iniziata nella fascia saheliana in seguito alle megalomani politiche della Libia a beneficio di popolazioni arabe (allevatori, razziatori), la diffusione delle armi automatiche ha rapidamente contagiato le popolazioni africane. I Nuba del Sudan abbandonarono i Remington 1867 di cui erano stati fieri utilizzatori per un secolo. Gli Afar dell’Etiopia fecero altrettanto con i Gras 1874 e si armarono con quello che era divenuto disponbile: AK, FAL, G3, ecc. Come un’epidemia, l’adozione di armi moderne si infiltrò nelle zone deboli dei vari Paesi in cui i controlli degli Stati erano scarsi o assenti.

Attualmente alcune di queste popolazioni come i Kuria, i Turkana, i Pokot, i Karamojong dell’East Africa ex britannica, caratterizzata da sempre da un limitato possesso di armi da parte dei civili, dispongono di piccoli eserciti con decine di migliaia di armi automatiche che nessuna forza di polizia, anche seriamente intenzionata, sarebbe in grado di contrastare. Le ricorrenti siccità, l’incremento demografico e quindi le contese per le zone di pascolo sono i moventi che maggiormente radicalizzano i pastori nomadi. La tradizionale propensione alla razzia tra tribù diverse o addirittura clan di esse ha ricevuto un forte incoraggiamento dalle armi moderne. In alcuni decenni si è quindi pervenuti a una situazione esplosiva. Le armi, una volta entrate a far parte della quotidianità di questi popoli, inducono un processo comportamentale per cui dal gruppo al singolo individuo esse vengono considerate una componente imprescindibile della propria frugale esistenza. Non diversamente da come, fino a non molti anni fa, venivano considerati archi, frecce e lance.

Datisi un programma ambizioso, i Paesi aderenti al progetto Igad stanno ricevendo aiuti economici sia direttamente da Paesi donatori sia tramite le agenzie specializate delle Nazioni Unite. Nessun donatore, comunque, sembra pretendere che il controllo delle armi proceda di pari passo con il necessario processo di democratizzazione. Migliaia di oppositori vengono incarcerati, torturati e uccisi ma la democrazia rimane, evidentemente, una opzione. La democratica Gran Bretagna ha fornito camion-officina per la distruzione istantanea delle Salw, forse sperando di far dimenticare che anni fa, scandalizzando l’opinione pubblica, vendette alla Tanzania per 40 milioni di dollari un inutile sistema radar che ha funzionato per poche settimane. La mancanza dalla lista dello Yemen, campione storico del commercio regionale di armi, come viene rilevato anche in questi giorni in Somalia, denuncia la scarsa coerenza del progetto e dà adito al sospetto che tutta l’operazione, nonostante i discreti finanziamenti e la consueta retorica delle Nazioni Unite, sia destinata a uno scarso successo.

Se ciascuno di questi Paesi vanta un passato storico unico e peculiare, va anche rilevato che almeno quattro di essi (Etiopia, Eritrea, Somalia, Sudan) hanno contribuito massiciamente alla proliferazione di armi al loro interno e, come inevitabile conseguenza, nei Paesi confinanti. In ciascuno dei quattro Paesi lo Stato ha più o meno ufficialmente promosso la diffusione di Salw tra i suoi abitanti, armando interi gruppi etnici a scapito di altri. Si pensi al Darfur. Rimane quindi da spiegare come si possa pretendere che intere comunità consegnino le armi che hanno acquisito, spesso pagandole, per fini di autodifesa. Inoltre, la minaccia dei gruppi jihadisti, presenti in tutti i Paesi firmatari dell’accordo, può inficiare qualsiasi embargo anti-armi, con immedita approvazione da parte di Usa e Gb, e vedere gli stessi Stati propositori del controllo Salw, divenire di punto in bianco acquirenti. Le armi di dotazione, nelle mani di personale demoralizzato e/o corrotto non tarderebbero a raggiungere utilizzatori non istituzionali e il tanto esacrato processo riprenderebbe. Da anni è abbastanza comune che armi recuperate in seguito a rapine e razzie risultino uscite da magazzini dell’esercito o della polizia. Un fatto che deve servire da monito per i donatori, se non vogliono continuare a dissipare fondi pubblici, facendo poco o nulla per imporre il rispetto dei diritti umani da parte degli Stati.

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