Da Famiglia cristiana del 09/07/2006
Originale su http://www.stpauls.it/fc/0628fc/0628fc60.htm
Addio alle armi
Diario colombiano del vicesegretario generale dell’Onu, Antonio Maria Costa, mentre al Palazzo di vetro si discute di come combattere il proliferare di pistole, fucili e mitra.
di Antonio Maria Costa
Sono lì, più di tremila, catalogate con cura certosina, custodite in un deposito della polizia colombiana che le ha sequestrate a guerriglieri, narcotrafficanti e delinquenti comuni. «Tutte hanno ucciso», dice chi le sorveglia.
In questo caso è più eloquente una fotografia di mille parole. Anche perché le parole rischiano di ingannare. Si è soliti, infatti, parlare di "armi leggere" quando, invece, si dovrebbe avere il coraggio di affermare che sono armi di distruzione di massa, giacché pistole, fucili, mitragliatori, mortai, missili portatili e lanciagranate (di questo stiamo ragionando) uccidono nel mondo fino a 500.000 persone all’anno, una ogni due minuti.
Sto preparando l’intervento che mi è stato chiesto di fare al Palazzo di vetro, a New York. Cinque anni fa, l’ufficio dell’Onu che dirigo (si chiama Unodc, ha il compito di contrastare i traffici di droga, il crimine organizzato, la corruzione e, da ultimo, il terrorismo) riuscì a creare il consenso internazionale necessario a varare un Protocollo che cominciasse a dettare regole certe, in materia. In particolare si è imposta la registrazione di ogni arma da fuoco prodotta, al fine di conoscere la data e la località di fabbricazione. Lo scopo? Evitare che le "armi leggere" finiscano in cattive mani. Uniche due eccezioni ammesse: le commesse destinate alle polizie e agli eserciti; le forniture ufficiali tra Stati.
Per il resto: obbligare a lasciare tracce visibili giova nel seguire le armi nelle loro lunghe, intricate peripezie. Ce ne siamo accorti in diverse occasioni. Molte delle armi di provenienza illegale usate durante le guerre balcaniche degli anni Novanta sono state successivamente rintracciate in Paesi dell’Africa occidentale (Liberia, Sierra Leone e Costa d’Avorio), dove hanno causato altri morti. Alcune di quelle armi, poi, sono state ulteriormente esportate dalla criminalità organizzata in Congo, una nazione in cui la violenza non conosce tregua e dove l’importazione illegale di armi viene "pagata" con l’esportazione altrettanto illegale di risorse naturali.
L’ASPETTO POLITICO E QUELLO GIURIDICO
Sto preparando il mio intervento, dicevo. A un lustro esatto dal varo del Protocollo (approvato nel 2001 ed entrato in vigore il 3 luglio 2005) occorre riflettere su ciò che è stato fatto e su ciò (molto, moltissimo) che rimane da fare. Il Segretariato generale di New York, sollecitato dalla crescente mobilitazione dell’opinione pubblica mondiale (si pensi soltanto alla campagna Control Arms), ha impostato la Conferenza più sul versante politico del "disarmo" che su quello più meramente giuridico, limitato – però – al contrasto dei traffici illegali, che era all’origine del Protocollo stesso, non a caso concepito come uno dei tre distinti Protocolli aggiuntivi alla Convenzione contro la criminalità organizzata transnazionale.
Sembrano sottili distinzioni da "azzeccagarbugli", ma non è così. Consci che le vittime delle armi leggere sono spesso donne, bambini e uomini inermi il cui unico torto è trovarsi nel posto sbagliato nel momento sbagliato, il segretario generale, Kofi Annan, e le Nazioni Unite, in generale, puntano a scuotere i Governi.
In questo delicato settore la percezione è che si continui a faticare oltre il dovuto. A oggi, tra i 52 Paesi che hanno firmato il Protocollo non figurano Stati Uniti d’America, Francia, Russia, Israele, Iran ed Egitto, giusto per limitarmi a qualche esempio. La Cina ha firmato il 9 dicembre 2002, ma – insieme ad altre nazioni – ha insistito sul mantenimento del segreto di Stato circa i volumi e le località di produzione. Germania, Italia e Regno Unito hanno firmato, sì, ma non hanno ancora ratificato il Protocollo, non l’hanno cioè tradotto in legge nazionale, inserendolo così nel loro ordinamento giuridico. Come se non bastasse, le lobby dei produttori d’armi e di chi vuole continuare ad averle oppongono una strenua resistenza.
L’americana National Rifle Association è intervenuta nel timore (infondato) che il Protocollo portasse al bando della proprietà privata (e legittima, se registrata) delle armi da fuoco. Rileggo la documentazione e butto giù gli appunti in una terra, la Colombia, che sembra fatta apposta per raccontare gli intrecci perversi che legano i traffici di armi ad altri affari criminali, droga e riciclaggio del denaro sporco in primo luogo. Qui luci e ombre si rincorrono.
GUERRIGLIERI O CRIMINALI
Il Governo del presidente Álvaro Uribe e del suo vice, Francisco Santos, è riuscito a dimezzare, negli ultimi cinque anni, la terra destinata alla coltivazione della coca. Tuttavia, la Colombia si conferma in testa alla classifica mondiale dei produttori di cocaina (lo scorso anno ne ha confezionato 660 tonnellate). Le coltivazioni (estese su 86.000 ettari, stando ai dati del 2005) resistono nelle zone che sfuggono al controllo delle autorità e sono di fatto in mano a guerriglieri o bande criminali.
In compagnia del collega e amico Sandro Calvani, capo dell’Unodc in Colombia, nonché insieme ai vertici della polizia, oggi andrò a Medellín, terra del più famigerato cartello di narcotrafficanti del passato. Nei giorni scorsi, ho sorvolato in elicottero (un Blackhawk blindato) le aree del Nariño che circondano Tumaco, la nuova frontiera della coca, dove opera un nuovo e pericoloso cartello. Non siamo atterrati nel timore di essere attaccati. Le operazioni di polizia si susseguono, i sequestri di armi pure. La violenza, però, sebbene vada riducendosi, non è ancora debellata. Un paio di sere fa un musicista ha suonato una chitarra alquanto speciale: era ricavata da un Ak47, un kalashnikov d’assalto, l’arma "leggera" più diffusa al mondo. Poco più che un simbolo. Ma che ci conforta. Far tacere le armi è dunque possibile. Anche chi per professione fatica lungo i sentieri della politica e della diplomazia deve saper sperare contro ogni speranza.
In questo caso è più eloquente una fotografia di mille parole. Anche perché le parole rischiano di ingannare. Si è soliti, infatti, parlare di "armi leggere" quando, invece, si dovrebbe avere il coraggio di affermare che sono armi di distruzione di massa, giacché pistole, fucili, mitragliatori, mortai, missili portatili e lanciagranate (di questo stiamo ragionando) uccidono nel mondo fino a 500.000 persone all’anno, una ogni due minuti.
Sto preparando l’intervento che mi è stato chiesto di fare al Palazzo di vetro, a New York. Cinque anni fa, l’ufficio dell’Onu che dirigo (si chiama Unodc, ha il compito di contrastare i traffici di droga, il crimine organizzato, la corruzione e, da ultimo, il terrorismo) riuscì a creare il consenso internazionale necessario a varare un Protocollo che cominciasse a dettare regole certe, in materia. In particolare si è imposta la registrazione di ogni arma da fuoco prodotta, al fine di conoscere la data e la località di fabbricazione. Lo scopo? Evitare che le "armi leggere" finiscano in cattive mani. Uniche due eccezioni ammesse: le commesse destinate alle polizie e agli eserciti; le forniture ufficiali tra Stati.
Per il resto: obbligare a lasciare tracce visibili giova nel seguire le armi nelle loro lunghe, intricate peripezie. Ce ne siamo accorti in diverse occasioni. Molte delle armi di provenienza illegale usate durante le guerre balcaniche degli anni Novanta sono state successivamente rintracciate in Paesi dell’Africa occidentale (Liberia, Sierra Leone e Costa d’Avorio), dove hanno causato altri morti. Alcune di quelle armi, poi, sono state ulteriormente esportate dalla criminalità organizzata in Congo, una nazione in cui la violenza non conosce tregua e dove l’importazione illegale di armi viene "pagata" con l’esportazione altrettanto illegale di risorse naturali.
L’ASPETTO POLITICO E QUELLO GIURIDICO
Sto preparando il mio intervento, dicevo. A un lustro esatto dal varo del Protocollo (approvato nel 2001 ed entrato in vigore il 3 luglio 2005) occorre riflettere su ciò che è stato fatto e su ciò (molto, moltissimo) che rimane da fare. Il Segretariato generale di New York, sollecitato dalla crescente mobilitazione dell’opinione pubblica mondiale (si pensi soltanto alla campagna Control Arms), ha impostato la Conferenza più sul versante politico del "disarmo" che su quello più meramente giuridico, limitato – però – al contrasto dei traffici illegali, che era all’origine del Protocollo stesso, non a caso concepito come uno dei tre distinti Protocolli aggiuntivi alla Convenzione contro la criminalità organizzata transnazionale.
Sembrano sottili distinzioni da "azzeccagarbugli", ma non è così. Consci che le vittime delle armi leggere sono spesso donne, bambini e uomini inermi il cui unico torto è trovarsi nel posto sbagliato nel momento sbagliato, il segretario generale, Kofi Annan, e le Nazioni Unite, in generale, puntano a scuotere i Governi.
In questo delicato settore la percezione è che si continui a faticare oltre il dovuto. A oggi, tra i 52 Paesi che hanno firmato il Protocollo non figurano Stati Uniti d’America, Francia, Russia, Israele, Iran ed Egitto, giusto per limitarmi a qualche esempio. La Cina ha firmato il 9 dicembre 2002, ma – insieme ad altre nazioni – ha insistito sul mantenimento del segreto di Stato circa i volumi e le località di produzione. Germania, Italia e Regno Unito hanno firmato, sì, ma non hanno ancora ratificato il Protocollo, non l’hanno cioè tradotto in legge nazionale, inserendolo così nel loro ordinamento giuridico. Come se non bastasse, le lobby dei produttori d’armi e di chi vuole continuare ad averle oppongono una strenua resistenza.
L’americana National Rifle Association è intervenuta nel timore (infondato) che il Protocollo portasse al bando della proprietà privata (e legittima, se registrata) delle armi da fuoco. Rileggo la documentazione e butto giù gli appunti in una terra, la Colombia, che sembra fatta apposta per raccontare gli intrecci perversi che legano i traffici di armi ad altri affari criminali, droga e riciclaggio del denaro sporco in primo luogo. Qui luci e ombre si rincorrono.
GUERRIGLIERI O CRIMINALI
Il Governo del presidente Álvaro Uribe e del suo vice, Francisco Santos, è riuscito a dimezzare, negli ultimi cinque anni, la terra destinata alla coltivazione della coca. Tuttavia, la Colombia si conferma in testa alla classifica mondiale dei produttori di cocaina (lo scorso anno ne ha confezionato 660 tonnellate). Le coltivazioni (estese su 86.000 ettari, stando ai dati del 2005) resistono nelle zone che sfuggono al controllo delle autorità e sono di fatto in mano a guerriglieri o bande criminali.
In compagnia del collega e amico Sandro Calvani, capo dell’Unodc in Colombia, nonché insieme ai vertici della polizia, oggi andrò a Medellín, terra del più famigerato cartello di narcotrafficanti del passato. Nei giorni scorsi, ho sorvolato in elicottero (un Blackhawk blindato) le aree del Nariño che circondano Tumaco, la nuova frontiera della coca, dove opera un nuovo e pericoloso cartello. Non siamo atterrati nel timore di essere attaccati. Le operazioni di polizia si susseguono, i sequestri di armi pure. La violenza, però, sebbene vada riducendosi, non è ancora debellata. Un paio di sere fa un musicista ha suonato una chitarra alquanto speciale: era ricavata da un Ak47, un kalashnikov d’assalto, l’arma "leggera" più diffusa al mondo. Poco più che un simbolo. Ma che ci conforta. Far tacere le armi è dunque possibile. Anche chi per professione fatica lungo i sentieri della politica e della diplomazia deve saper sperare contro ogni speranza.
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