Da La Stampa del 22/06/2006
Originale su http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/esteri/200606articoli/6737...
Dibattiti a due mesi dal verdetto nei confronti del dittatore iracheno, mondo cattolico e intellettuali americani si interrogano:«la condanna capitale e’ vera giustizia?»
L’appello del Vaticano: «No alla pena di morte per Saddam Hussein»
Il cardinale Poupard: «Sul rispetto della vita la Chiesa non fa nessuna eccezione»
di Francesca Sforza
Il «principio dell’inviolabilità della vita umana» è al di sopra di tutto, anche di Saddam Hussein e dei suoi crimini. Con le parole del cardinale francese Paul Poupard, il Vaticano entra nel vivo del dibattito e mette sul tavolo il suo «no» alla condanna a morte richiesta lunedì scorso nei confronti del dittatore iracheno dal pubblico ministero Jaafar Al-Moussawi al tribunale di Baghdad. «Il Catechismo della Chiesa cattolica, la Chiesa e il Papa - ha detto Poupard - ribadiscono che ogni persona è creatura di Dio e che nessuno può ritenersi padrone della vita e della morte altrui se non il Creatore». Non ci sono eccezioni, neanche per l’icona contemporanea del male in persona, come è diventato Saddam Hussein da quando gli americani hanno cominciato a dargli la caccia.
Il verdetto arriverà fra due mesi, ma l’opinione pubblica internazionale ha già fatto sentire alcune delle sue più autorevoli voci. In un’intervista alla «Stampa», il giurista di Harvard Alan Dershowitz avverte sul rischio di fare di Saddam un martire per quel 41 per cento di iracheni che vorrebbero vederlo libero immediatamente: «Per non parlare - aggunge Dershowitz - dei rischi che correrebbero i giudici impegnati nel procedimento o dell’eventuale spirale di sequestri che si potrebbe mettere in moto per tentare di influenzare la corte». Ma non è solo la paura del fanatismo islamico a far preferire a Dershowitz l’opzione del carcere a vita. «Non è più l’epoca del processo di Norimberga, le condizioni storiche sono cambiate, il solo paragone tra l’Iraq di Saddam e il Terzo Reich è irriverente». La giustizia americana dovrebbe sapersi mostrare «fair» - leale, imparziale - e relegare al passato i fantasmi della «giustizia dei vincitori» - per usare l’espressione di Hermann Goering nel 1946 - o della legge del taglione. Non la pensa allo stesso modo il filosofo liberal americano Paul Berman, che in un’intervista al «Corriere della Sera» sostiene al contrario la necessità di una pubblica morte. Per Saddam, secondo Berman, possono essere applicate le stesse regole che furono osservate per Adolf Eichmann, il burocrate che portò allo sterminio milioni di ebrei: «Era il 1962, in Israele la pena di morte neanche esisteva, ma il caso ne rese necessaria l’applicazione». Oggi un’esecuzione servirebbe «a placare il popolo iracheno che Saddam ha oppresso e martoriato». Con buona pace dei liberal, «che ogni tanto devono sottostare a qualche contraddizione paradossale».
Anticipando le parole del cardinale Poupard - tra i primi, in passato, a difendere pubblicamente la necessità di inserire nel preambolo della Costituzione Europea il richiamo alle radici cristiane, così come a liquidare il «Codice Da Vinci» definendolo «un cumulo di sciocchezze» - il quotidiano cattolico «Avvenire» aveva illustrato in un editoriale le ragioni del no alla condanna capitale: «Politicamente forse l'ergastolo in regime di carcere duro non darebbe adeguata soddisfazione alle vittime delle persecuzioni (sciiti e curdi) mentre potrebbe apparire come eccessivamente indulgente nei confronti dei sunniti, minoranza prevaricante per decenni. Ma la ragion di Stato - si legge sul quotidiano della Cei - non annulla le istanze dell'etica. Nulla dà legittimità a una uccisione che non sia motivata da un’impellente ragione di legittima difesa».
Quando il Vaticano mise in moto la sua macchina diplomatica per cercare di ottenere la liberazione di Tarek Aziz - il cristiano caldeo numero due del regime iracheno - il «Teheran Times» non risparmiò le critiche, accusando i cattolici di Roma di indifferenza «verso crimini contro l’umanità commessi nei confronti di non cristiani». Questa volta però il dialogo interreligioso e i suoi rappresentanti non c’entrano: si tratta di tenere in vita l’attore e il testimone di un oscuro scorcio della storia contemporanea. E il primo a non essere d’accordo sembra essere lo stesso Saddam. Al termine della requisitoria del pubblico ministero Al-Moussawi, ha sfoderato il più sarcastico dei sorrisi e ha mormorato: «Va bene così».
Il verdetto arriverà fra due mesi, ma l’opinione pubblica internazionale ha già fatto sentire alcune delle sue più autorevoli voci. In un’intervista alla «Stampa», il giurista di Harvard Alan Dershowitz avverte sul rischio di fare di Saddam un martire per quel 41 per cento di iracheni che vorrebbero vederlo libero immediatamente: «Per non parlare - aggunge Dershowitz - dei rischi che correrebbero i giudici impegnati nel procedimento o dell’eventuale spirale di sequestri che si potrebbe mettere in moto per tentare di influenzare la corte». Ma non è solo la paura del fanatismo islamico a far preferire a Dershowitz l’opzione del carcere a vita. «Non è più l’epoca del processo di Norimberga, le condizioni storiche sono cambiate, il solo paragone tra l’Iraq di Saddam e il Terzo Reich è irriverente». La giustizia americana dovrebbe sapersi mostrare «fair» - leale, imparziale - e relegare al passato i fantasmi della «giustizia dei vincitori» - per usare l’espressione di Hermann Goering nel 1946 - o della legge del taglione. Non la pensa allo stesso modo il filosofo liberal americano Paul Berman, che in un’intervista al «Corriere della Sera» sostiene al contrario la necessità di una pubblica morte. Per Saddam, secondo Berman, possono essere applicate le stesse regole che furono osservate per Adolf Eichmann, il burocrate che portò allo sterminio milioni di ebrei: «Era il 1962, in Israele la pena di morte neanche esisteva, ma il caso ne rese necessaria l’applicazione». Oggi un’esecuzione servirebbe «a placare il popolo iracheno che Saddam ha oppresso e martoriato». Con buona pace dei liberal, «che ogni tanto devono sottostare a qualche contraddizione paradossale».
Anticipando le parole del cardinale Poupard - tra i primi, in passato, a difendere pubblicamente la necessità di inserire nel preambolo della Costituzione Europea il richiamo alle radici cristiane, così come a liquidare il «Codice Da Vinci» definendolo «un cumulo di sciocchezze» - il quotidiano cattolico «Avvenire» aveva illustrato in un editoriale le ragioni del no alla condanna capitale: «Politicamente forse l'ergastolo in regime di carcere duro non darebbe adeguata soddisfazione alle vittime delle persecuzioni (sciiti e curdi) mentre potrebbe apparire come eccessivamente indulgente nei confronti dei sunniti, minoranza prevaricante per decenni. Ma la ragion di Stato - si legge sul quotidiano della Cei - non annulla le istanze dell'etica. Nulla dà legittimità a una uccisione che non sia motivata da un’impellente ragione di legittima difesa».
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