Da La Stampa del 19/06/2006
Originale su http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/esteri/200606articoli/6627...

Come il Vietnam degli anni sessanta: un paese dove la supremazia militare è relativamente facile ma impossibile da occupare

Sotto il vestito di Kabul, Saigon

di Giuseppe Zaccaria

KABUL. Traffico assurdo e nervi a fior di pelle, cortei di blindati e motociclette che schizzano da tutte le parti, sacchetti di sabbia e pareti di cemento a bloccare gli accessi ad ogni «obiettivo sensibile», elicotteri che piombano su qualsiasi ingorgo per sincerarsi che non sia preludio di un attentato.

Qualcuno negli Stati Uniti ha scritto che Kabul comincia a somigliare alla Saigon degli Anni Sessanta. Il paragone sembra ancora un po' eccessivo, forse nasce dal fatto che come il Vietnam questo è un Paese relativamente facile da invadere ma impossibile da occupare. Se un reparto di polizia afghana ti ferma e ti perquisisce per evitare di essere spogliato per strada c'è soltanto la via della mancia. E' vero, qui c'è corruzione come ce n'era allora nel Sud-Est asiatico, si è ricostruito pochissimo e le ruberie sono ciclopiche, l'economia della droga è la sola che risulti fiorente e anche questi sono paralleli possibili.

Poi come nel Vietnam di quarant'anni fa si vedono dappertutto soldati stranieri che quasi senza accorgersene da liberatori si stanno trasformando in invasori, e in quanto occupanti diventano risorse da spremere. Ma dove si nascondono le ragazze facili, o anche difficili, magari impossibili e comunque intercettabili da uno straniero? Dove sono i segni di una rivoluzione sociale e dei costumi, dove i segni, anche i più moralmente spregevoli di una qualsiasi ripresa economica, di un nuovo dinamismo sociale, di un mutamento nei secolari equilibri delle famiglie e delle tribù? Qui a parte qualche ragazza dei licei e neanche tutte, le donne continuano imperterrite a indossare il «burkha», vuoi per rispetto di regole antiche vuoi per praticità poiché con il reddito medio di una famiglia afghana per una donna acconciarsi per apparire in pubblico sarebbe davvero arduo.

A ben vedere dunque il parallelo americano con il Vietnam regge unicamente sotto l'aspetto politico e militare, il che non è poco. Per usare le parole del solito diplomatico occidentale uso a lanciare bombe in forma anonima, «gli afghani non hanno più paura dei soldati occidentali e con la paura hanno perso il rispetto, hanno capito che possono battere perfino gli americani e si preparano a farlo». Questo scatto di mentalità si fa risalire a una data precisa, il 29 maggio scorso. Rammentate la «rivolta di Kabul»? Presi in contropiede, giornali e tv di tutto i mondo definirono così un'insurrezione popolare che per lunghe ore tenne in scacco le forze della coalizione, le ambasciate d'America e d'Italia nonché l'intero apparato militare afghano.

«Quella fu tutto tranne che una rivolta improvvisa - ci spiegava l'altra sera un alto ufficiale italiano -. E' vero, un camion americano investì e uccise alcuni civili ma nel popolino l'insoddisfazione stava montando da tempo e si aspettava solo l'occasione per farla esplodere, da settimane il nostro preallarme era salito fino al "livello giallo"». Dunque a quattro anni dall'intervento armato e dalla fine dei taleban gran parte di questa gente si è stufata di vivere come prima o con la sola differenza che adesso a comandare sono nuovamente i «pasthoun».

Per prepararci alle prossime decisioni sul futuro del nostro contingente asiatico, sarà il caso di far sapere che dal vicino Pakistan sono partite le prime «fatwe» contro l'occupante straniero e che tra gli afghani tutti coloro che aderiscono a «Jamiat i Islami», filiazione locale dei Fratelli musulmani, considerano santo quell'invito e cominciano a dirlo pubblicamente. Le ultime settimane rivelano qualcosa di strabiliante, «Jamiat i Islami» ha finito con ritrovarsi sulla stessa sponda dei taleban poiché con essi condivide sia il nazionalismo che la fede islamica, più naturalmente la feroce critica all'attuale stato di cose. Secondo il «Toronto Star» dalle moschee i chierici hanno cominciato a trasformare le preghiere del venerdì in altrettanti appelli alla guerriglia, insomma proprio in questi momenti un potere secolarista scacciato dalle bombe americane, nella versione dei «mullah» comincerebbe a tramutarsi in «resistenza». Prima o poi dai minareti qualcuno chiamerà a una nuova sollevazione, bisogna stare attenti, in Iraq era cominciata così.

«Qui siamo in una situazione estremamente delicata che entro settembre può virare in un senso o nell'altro. In Afghanistan abbiamo fatto diverse cose, ma non ancora abbastanza da punto di vista della ricostruzione, delle infrastrutture, dell'elettricità, dell'economia. In quest'area di incertezza si inseriscono taleban e vecchi banditi che adesso si definiscono “resistenti”: o acceleriamo gli interventi o loro diventeranno più credibili, e saranno dolori». L'analisi degli esperti occidentali per il momento risparmia il modo in cui la nuova presidenza gestisce il potere. Il governo del presidente Hamid Kharzai non è certo peggiore di quelli che l'hanno preceduto, anzi comincia a rivelarsi ad essi pericolosamente eguale. Dalla capitale la minoranza uzbeka chiama in aiuto i fratelli uzbeki del Nord-Est. Si hanno notizie di uno strano traffico d’armi fra l’«Alleanza del Nord» e i gruppi taleban al Sud. Fra rivolte orchestrate dai mullah e alleanze tribali che si ricompongono l'Afghanistan è alla vigilia di una nuova eruzione. Meglio saperlo, per noi che dobbiamo rimanerci.

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