Da Panorama del 22/03/2006
Originale su http://www.panorama.it/mondo/capire_mondo/articolo/ix1-A020001035405
Iran, conto alla rovescia
Bush vuole una soluzione prima della fine del mandato. Sperando nell'Onu o in un cambio di regime. Altrimenti, non restano che le bombe.
di Pino Buongiorno
La decisione l'ha maturata a metà gennaio.
«In un modo o in un altro la questione Iran la risolverò io prima di abbandonare la Casa Bianca a fine 2008» ha comunicato solennemente George W. Bush ai suoi principali collaboratori.
«Sarebbe ingiusto da parte mia lasciare un'eredità tanto pesante al nuovo presidente». Subito dopo, questa indicazione è stata trasferita informalmente, attorno alla metà di febbraio, ai partner internazionali più fidati (Gran Bretagna, Giappone, Italia, Germania e, in questo caso, anche Francia).
È un cambio di rotta significativo, simile per certi versi a quello che ha preceduto l'invasione dell'Iraq, tre anni fa. L'Iran, con i suoi progetti per costruire la bomba atomica, è oggi «la principale minaccia che dobbiamo affrontare da un singolo stato» ha specificato il segretario di Stato Condoleezza Rice in una recente testimonianza al Senato americano.
Rispetto alla guerra contro Saddam Hussein c'è però una novità: questa volta Bush non ha intenzione di agire unilateralmente.
Primo passo, dunque, una risoluzione, o più probabilmente una solenne dichiarazione, del presidente di turno del Consiglio di sicurezza Onu (Argentina), che dovrebbe ammonire l'Iran per aver ripreso le attività di ricerca e sviluppo dell'uranio arricchito. Il governo di Teheran verrebbe invitato entro 15 giorni a rinegoziare lo stop incondizionato con l'agenzia atomica di Vienna.
In mancanza di una risposta positiva, gli Stati Uniti e gli alleati europei e asiatici proporrebbero al Consiglio di sicurezza l'applicazione di sanzioni mirate per colpire direttamente il regime e non tanto gli iraniani. Sarebbero vietati, per esempio, i viaggi all'estero di un centinaio di dirigenti ufficiali dell'Iran e anche l'export a fini civili e militari di tecnologia nucleare. Non ci dovrebbero essere invece in questa fase sanzioni di tipo economico, come il blocco delle esportazioni di petrolio e di gas iraniano.
Contemporaneamente ai passi diplomatici l'amministrazione americana ha cominciato a scaldare i motori della sua macchina da guerra per arrivare sia a un «cambio di regime» dall'interno sia, come soluzione finale, a un attacco aereo contro i più importanti siti nucleari del regime: non più di 100, secondo l'attuale pianificazione del Pentagono.
All'inizio di marzo il dipartimento di Stato ha creato un Iranian desk con 10 funzionari a tempo pieno. L'ambasciata americana negli Emirati Arabi Uniti sarà presto rinforzata da un centinaio di diplomatici, analisti e agenti segreti.
L'amministrazione Bush infine ha cominciato a distribuire i 75 milioni di dollari ottenuti dal Congresso per «promuovere la democrazia in Iran» attraverso programmi radiofonici, finanziamento di organizzazioni non governative e scambi culturali.
La speranza della Casa Bianca, non nascosta agli interlocutori della Nato, è che la componente radicale della teocrazia, quella che fa capo al presidente Mahmoud Ahmadinejad, messa sotto pressione, possa essere sostituita dall'ala più pragmatica, guidata dall'ex presidente Hashemi Rafsanjani, per far sopravvivere il regime sciita. Se anche questa opzione fallisse, si aprirebbero scenari più pericolosi.
Il primo sarebbe l'attacco aereo in una sola notte da parte di una cinquantina di bombardieri dell'Us Air Force, allo scopo di ritardare per molti anni la produzione di armi nucleari. Il secondo scenario è quello della cosiddetta «one-bomb», vale a dire il bombardamento improvviso, anche durante le attuali fasi diplomatiche, non solo da parte americana ma anche israeliana, nel caso in cui i servizi segreti dei due paesi dovessero avere le prove che i preparativi per costruire un ordigno nucleare sono in dirittura d'arrivo.
Peggio ancora se dovesse essere captato un test dimostrativo.
«In un modo o in un altro la questione Iran la risolverò io prima di abbandonare la Casa Bianca a fine 2008» ha comunicato solennemente George W. Bush ai suoi principali collaboratori.
«Sarebbe ingiusto da parte mia lasciare un'eredità tanto pesante al nuovo presidente». Subito dopo, questa indicazione è stata trasferita informalmente, attorno alla metà di febbraio, ai partner internazionali più fidati (Gran Bretagna, Giappone, Italia, Germania e, in questo caso, anche Francia).
È un cambio di rotta significativo, simile per certi versi a quello che ha preceduto l'invasione dell'Iraq, tre anni fa. L'Iran, con i suoi progetti per costruire la bomba atomica, è oggi «la principale minaccia che dobbiamo affrontare da un singolo stato» ha specificato il segretario di Stato Condoleezza Rice in una recente testimonianza al Senato americano.
Rispetto alla guerra contro Saddam Hussein c'è però una novità: questa volta Bush non ha intenzione di agire unilateralmente.
Primo passo, dunque, una risoluzione, o più probabilmente una solenne dichiarazione, del presidente di turno del Consiglio di sicurezza Onu (Argentina), che dovrebbe ammonire l'Iran per aver ripreso le attività di ricerca e sviluppo dell'uranio arricchito. Il governo di Teheran verrebbe invitato entro 15 giorni a rinegoziare lo stop incondizionato con l'agenzia atomica di Vienna.
In mancanza di una risposta positiva, gli Stati Uniti e gli alleati europei e asiatici proporrebbero al Consiglio di sicurezza l'applicazione di sanzioni mirate per colpire direttamente il regime e non tanto gli iraniani. Sarebbero vietati, per esempio, i viaggi all'estero di un centinaio di dirigenti ufficiali dell'Iran e anche l'export a fini civili e militari di tecnologia nucleare. Non ci dovrebbero essere invece in questa fase sanzioni di tipo economico, come il blocco delle esportazioni di petrolio e di gas iraniano.
Contemporaneamente ai passi diplomatici l'amministrazione americana ha cominciato a scaldare i motori della sua macchina da guerra per arrivare sia a un «cambio di regime» dall'interno sia, come soluzione finale, a un attacco aereo contro i più importanti siti nucleari del regime: non più di 100, secondo l'attuale pianificazione del Pentagono.
All'inizio di marzo il dipartimento di Stato ha creato un Iranian desk con 10 funzionari a tempo pieno. L'ambasciata americana negli Emirati Arabi Uniti sarà presto rinforzata da un centinaio di diplomatici, analisti e agenti segreti.
L'amministrazione Bush infine ha cominciato a distribuire i 75 milioni di dollari ottenuti dal Congresso per «promuovere la democrazia in Iran» attraverso programmi radiofonici, finanziamento di organizzazioni non governative e scambi culturali.
La speranza della Casa Bianca, non nascosta agli interlocutori della Nato, è che la componente radicale della teocrazia, quella che fa capo al presidente Mahmoud Ahmadinejad, messa sotto pressione, possa essere sostituita dall'ala più pragmatica, guidata dall'ex presidente Hashemi Rafsanjani, per far sopravvivere il regime sciita. Se anche questa opzione fallisse, si aprirebbero scenari più pericolosi.
Il primo sarebbe l'attacco aereo in una sola notte da parte di una cinquantina di bombardieri dell'Us Air Force, allo scopo di ritardare per molti anni la produzione di armi nucleari. Il secondo scenario è quello della cosiddetta «one-bomb», vale a dire il bombardamento improvviso, anche durante le attuali fasi diplomatiche, non solo da parte americana ma anche israeliana, nel caso in cui i servizi segreti dei due paesi dovessero avere le prove che i preparativi per costruire un ordigno nucleare sono in dirittura d'arrivo.
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