Da Narcomafie del 01/03/2002
Originale su http://www.narcomafie.it/articoli/art_3_2002.htm

MAFIA E GEOPOLITICA

Armi: da Freetown a Kandahar

Dopo la disgregazione dell'URSS il contrabbando di armi è diventato, dopo il narcotraffico, l'attività più redditizia per la criminalità internazionale. E una recente indagine in Belgio rivela connessioni insospettabili…

di Paolo dalla Zonca

Che si tratti di Africa, Asia, America latina, o paesi a noi molto più vicini come la ex Jugoslavia, il meccanismo che alimenta la richiesta di armi illegali è simile in tutto il mondo e coinvolge spesso i paesi più poveri. In queste regioni lo scarso rispetto dei diritti umani, le condizioni di miseria, le tensioni etniche e razziali, la disuguaglianza nella distribuzione di cibo e acqua corrente hanno favorito la nascita di numerosi conflitti. La presenza di classi dirigenti corrotte, autoritarie o incapaci, rappresenta un terreno fertile per ingiustizie strumentalizzate da aspiranti dittatori, potenti senza scrupoli o politici sconfitti che ambiscono alla vendetta.

Dilaga così nei gruppi sociali, etnici o religiosi la tentazione di passare alla ribellione violenta, e ai primi segnali di insurrezione si accompagna automaticamente la risposta della fazione al potere. Si alimenta così la spirale della vendetta e la domanda di armi.


ARMI LEGGERE, EFFETTI DEVASTANTI

Ma poiché al governo di un paese in stato di guerra civile, l'accesso agli armamenti è formalmente inibito dalle leggi internazionali e dalle disposizioni previste dalla Carta delle Nazioni Unite, ai governanti e ai ribelli che vogliono procurarsi delle armi non resta che il ben fornito mercato parallelo e sotterraneo: quello illegale.

La potenza, l’efficacia, la leggerezza e la facilità d’uso delle armi individuali moderne hanno fatto delle cosiddette "armi leggere" il protagonista dei conflitti civili dal secondo dopoguerra all’inizio del Ventunesimo secolo. Le guerre degli ultimi sessant’anni hanno coinvolto principalmente paesi instabili o in via di dissoluzione, causando sofferenze immani per le popolazioni civili.

Questa tipologia di conflitto si differenzia dalla tradizionale guerra tra Stati, in cui eserciti regolari si confrontano secondo dottrine militari sostanzialmente simili, accomunate dalla definizione della vittoria come raggiungimento dell’obiettivo politico della guerra (sulla base dei ben noti principi definiti da von Clausewitz, "la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi" e "scopo della guerra è annullare la capacità militare dell’avversario").

La guerra civile nel terzo mondo non distingue tra forze combattenti e civili, perché il nemico è definito dalla razza, dal dialetto, dalla religione, dalla politica o dalle idee; si combatte nei cortili delle case, tra conoscenti, organizzando rapidi agguati e spedizioni punitive. Spesso si fronteggiano persone analfabete, con scarse competenze tecnologiche o meccaniche. Perciò armi come i fucili d’assalto russi kalashnikov o i lanciarazzi anticarro rpg-7 (tra i più diffusi al mondo) hanno meccanismi d’uso di tale semplicità da poter essere maneggiate anche da ragazzini di dieci anni.

In questo tipo di conflitto servono mobilità, occhio e autonomia di fuoco portatile. Grandi armamenti potenti ma "pesanti" come i carri armati sono inutili; il lanciarazzi portatile è l’arma più semplice ed efficace nelle poche decine di metri che dividono il tiratore dal bersaglio. È una guerra di fanteria.


IL MARCHIO SOVIETICO SUL CONTINENTE NERO

È stata la fine dell’Unione Sovietica in quanto grande impero economico multinazionale e centralizzato, a favorire l’esplosione dei mercati illegali di armi leggere del mondo. Le fabbriche russe, ucraine, bielorusse (per restare nell’ex U.R.S.S.), ma anche bulgare, romene, jugoslave e cinesi hanno continuato a sfornare, anche dopo il 1991, migliaia di pezzi nuovi. In Ucraina e Bielorussia erano concentrati gli arsenali di riserva per i piani sovietici di invasione dell’Europa occidentale in caso di Terza guerra mondiale. Milioni di fucili d’assalto, lanciarazzi, granate, mine, ma anche carri armati e veicoli corazzati erano conservati nei magazzini, pronti a sostituire le preventivabili perdite in caso di guerra tra le grandi coalizioni di Stati degli anni Ottanta.

Dopo il crollo dell’Unione Sovietica e del Patto di Varsavia e con la successiva indipendenza delle repubbliche ucraina e bielorussa, gli arsenali di riserva furono lasciati praticamente incustoditi, favorendo massicci furti da parte di ufficiali ex sovietici ma non ancora ucraini, vendite con documenti falsi a intermediari internazionali e conseguente sparizione di grandi quantità di armamenti nei meandri del grande contrabbando internazionale. Nell’ultimo decennio le armi leggere ex russe, ucraine, bielorusse, bulgare e romene hanno alimentato con certezza almeno quattro guerre civili africane: Liberia, Sierra Leone, Angola e Congo.

Figura centrale nel contrabbando internazionale di armi è quella di Viktor Anatoljevic Bout, forse ucraino, forse russo, forse nato nel Tajikistan sovietico, ex militare o forse ex agente del Kgb, di sicuro uno dei maggiori trafficanti d’armi dell’ultimo decennio, in violazione degli embarghi delle Nazioni Unite. Le indagini su di lui hanno ricevuto nuova linfa dal recente arresto in Belgio di un importante collaboratore, Sanjivan Ruprah, probabilmente il suo braccio destro. La procura generale belga ha emesso successivamente un ordine di cattura internazionale contro lo stesso Bout.

La vicenda di Bout ha guadagnato ulteriore spazio nelle cronache internazionali per il sospetto che il diabolico Viktor — oltre che ai guerriglieri dello sconfitto Fronte rivoluzionario unito (Ruf) della Sierra Leone, al loro protettore Charles Taylor (presidente della Liberia), ai guerriglieri dell’Unita angolana del defunto Jonas Savimbi, a varie fazioni della guerra civile in Congo, agli Hutu Interahamwe del Ruanda, al colonnello Gheddafi di Libia e ai guerriglieri Abu Sayyaf delle Filippine — abbia venduto armi anche ad al-Qaeda e ai talebani. Quattro rapporti delle Nazioni Unite e le indagini internazionali condotte da anni dall’Interpol confermano come il legame fra traffico internazionale d’armi e terrorismo abbia raggiunto un grado di connessione senza precedenti.


L'OMBRA DI BIN LADEN

All’inizio di febbraio la polizia belga ha arrestato il cittadino keniano di origine indiana Sanjivan Ruprah, accusato di essere un alto dirigente — forse il numero due — della compagnia aerea di Viktor Bout, la Cess Air, indicata nei rapporti dell’Onu come strumento di trasporto delle armi verso l’Africa. L’indo-keniano — accusato dalle Nazioni Unite di commerciare diamanti nella zona sotto embargo dell’Africa occidentale — era in Belgio dal giugno dello scorso anno, quando gli Stati Uniti gli avevano negato l’ingresso.

Le accuse contro Ruprah, arrestato per un falso passaporto inglese, sono così pesanti da averlo indotto a collaborare con le autorità giudiziarie, confessando i rapporti della Cess Air con i nemici numeri uno dell’Occidente, i terroristi islamici di al-Qaeda. C’è però il sospetto che la rivelazione costituisca un espediente per ammorbidire la probabile incriminazione per traffico internazionale d’armi. Le Nazioni Unite considerano infatti Ruprah uno dei quattro trafficanti che avrebbero sistematicamente violato l’embargo delle armi contro i ribelli del Ruf della Sierra Leone, che pagavano gli armamenti con diamanti.

Secondo i funzionari statunitensi accorsi immediatamente in Belgio, Sanjivan Ruprah, dopo il suo fermo, avrebbe concordato per mesi l’arresto attraverso Cia e Fbi, e dopo avrebbe cominciato a parlare dei traffici di Viktor Bout con l’Afghanistan dei talebani e con al-Qaeda. A metà febbraio, prima della presunta collaborazione dell’indo-keniano, il suo avvocato belga Luc De Temmermann aveva definito le accuse contro il suo cliente una "grottesca manipolazione dell’opinione pubblica mondiale da parte di Fbi, Cia e Onu". Tra l’altro circola la voce che De Temmermann, che ha deciso di non rilasciare più dichiarazioni ai media, si stia preparando a difendere anche Viktor Bout.

Secondo il britannico "Sunday Times", che ai primi di marzo ha pubblicato un dossier su Bout, l’accordo con i talebani sarebbe stato formalizzato nel 1996 negli Emirati Arabi Uniti. Qui, presso lo scalo aereo internazionale di Dubai — una delle sedi operative della Cess Air — sarebbero state fatte arrivare le armi da Ucraina, Russia, Bielorussia, Romania e Bulgaria, comprate a prezzi di svendita dalle fabbriche ex sovietiche sull’orlo del fallimento e poi recapitate in Afghanistan, a Kandahar, attraverso diversi viaggi. Secondo la Bbc, l’affare — che prevedeva forniture fino a poco prima dell’11 settembre — sarebbe stato confermato dai servizi di informazione occidentali, che hanno recuperato alcuni documenti negli uffici abbandonati dai talebani. I profitti dell’enorme fornitura afghana sarebbero notevoli: solo il guadagno personale di Viktor Bout potrebbe aver superato i 40 milioni di dollari.


L'INAFFERRABILE VIKTOR BOUT

Le operazioni di Viktor Bout sono note dal 1995, quando i suoi uffici erano in Belgio. Due anni dopo la sede operativa dei suoi traffici è stata trasferita ad Ajman, il più piccolo dei sette Emirati Arabi Uniti, e un nipote dell’Emiro di Ajman sarebbe anche socio di una delle aziende di Viktor. Inoltre Bout avrebbe una serie di proprietà in Africa, nella regione dei Grandi Laghi, tra cui alcuni immobili a Kampala, in Uganda, e a Kigali, in Ruanda.

Secondo le informazioni disponibili, Bout ha circa 35 anni, è di bassa statura ma muscoloso, ha un paio di folti baffi biondi e almeno cinque diversi passaporti. Sarebbe un ex ufficiale d’aviazione sovietico messosi in proprio, con alcuni colleghi, allo scioglimento del loro reggimento. Dopo avere acquistato diversi aerei da trasporto, avrebbe cominciato a contrabbandare armi prima con l’Afghanistan e poi con l’Africa, facendosi pagare in contanti, oro, diamanti, caffè o qualsiasi altro carico di valore. La Cess Air dispone ora di circa 60 aerei, e sarebbe la società privata con la più grande flotta di aerei Antonov da trasporto al mondo. La compagnia vanta circa 250 dipendenti in tutto il mondo, e il traffico d’armi viene abilmente coperto da attività legittime, tra cui anche il trasporto di Caschi blu pakistani per la missione dell’Onu a Timor Est, la quale Onu, come detto, è anche la principale accusatrice di Bout.

La notizia del mandato di cattura contro il trafficante russo, emesso il 18 febbraio in seguito all’arresto e alle dichiarazioni di Sanjivan Ruprah, è trapelata solo a marzo. L’atto della magistratura belga è considerato il primo, vero, pericoloso colpo contro Bout, forse il più importante e potente trafficante al mondo in questo momento.

L’accusa principale riguarda il riciclaggio di denaro sporco, ma potrebbe presto essere estesa al traffico internazionale d’armi. Entrambi i reati, sebbene gravi, non sono però sanzionati allo stesso modo dalle legislazioni dei vari paesi, anche per la tradizionale assenza di una normativa sovranazionale. Non a caso riciclaggio e contrabbando di armi costituiscono i principali affari delle mafie, che approfittano delle carenze e delle ambiguità dei sistemi repressivi.

Tra le accuse avanzate contro Bout c’è anche quella di avere organizzato un piano per far stampare in America Latina, probabilmente in Colombia — dove operano i migliori falsari del mondo — valuta congolese contraffatta per i ribelli del Congo orientale.

Alla conferma del possibile legame tra Viktor Bout e le forniture di armi ad al-Qaeda, gli Stati Uniti si sono dichiarati interessati ad ogni azione legale contro il russo, che però al momento è ancora a piede libero. Secondo alcune fonti, il trafficante si sarebbe allontanato dal suo quartiere generale negli Emirati, e potrebbe anche essere nascosto a Mosca, oppure in Congo. Al Ministero degli Interni russo hanno aperto un fascicolo su di lui, ma prima che scattassero le indagini della polizia russa, Bout ha concesso un’intervista a Radio Mosca — lo scorso 28 febbraio — per smentire qualsiasi contatto con i talebani e al-Qaeda.


ORA TOCCA ALLA PROCURA DI TORINO

Sono pochi i processi internazionali celebrati per traffico d’armi a questo livello. Un altro si sta svolgendo proprio in Italia, a Torino, e vede come personaggio di maggior spicco Alexander Borisovich Zhukov, 48 anni, di Mosca, noto anche alle cronache mondane. La Procura di Torino lo vuole incriminare per traffico internazionale di armamenti e per avere introdotto illegalmente armi da guerra nelle acque territoriali nazionali. A Zhukov i pubblici ministeri fanno risalire la proprietà e la gestione di un carico intercettato in Italia l’11 marzo 1994, quando alcune unità della Marina militare bloccarono la motonave Jadran Express in acque territoriali italiane. Nella stiva dell’imbarcazione, ufficialmente diretta al porto di Venezia, le autorità trovarono 30mila kalashnikov e 400 missili teleguidati, oltre a decine di migliaia di munizioni e razzi anticarro.

Sembra che le armi non fossero indirizzate in Italia e che la nave sia transitata per errore nel canale d’Otranto. Secondo le indagini le armi provenivano dalle fabbriche ucraine e bielorusse, grazie all’intermediazione di cittadini croati e greci. Nessuna informazione invece sulla destinazione finale del carico, ma tra i possibili clienti della via balcanica delle armi è stato indicato il Gia algerino, i feroci fondamentalisti islamici che, con l’aiuto dei governativi, straziano l’Algeria da dieci anni a questa parte.

Ma il traffico d’armi leggere non è solo un mercato illegale. Una volta che un paese ha legalmente acquistato armi dagli Stati Uniti, da un paese europeo o da un qualsiasi altro produttore, può trasferirle a gruppi alleati o rivenderle all’oscuro. Quando un esercito cambia armi, le vecchie dotazioni finiscono in magazzino: cosa succede dopo?

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