Da Le Figaro del 27/12/2005
Originale su http://www.lefigaro.fr/international/20051224.FIG0057.html

La democrazia che non piace a Washington

di Delphine Minoui

Ciò che è uscito dal nuovo scrutinio iracheno rivela tutta la fragilità del progetto di unità per l'Iraq che sognava George Bush

Dopo la pubblicazione, questa settimana, dei risultati parziali dello scrutinio parlamentare in Iraq, George Bush si è affrettato a gridare vittoria reiterando "l'impegno dell'America a condurre il popolo iracheno verso la democrazia e ad aiutarlo a vincere i terroristi e i fedeli di Saddam Hussein".

Ma le elezioni che si sono appena svolte in Iraq traducono una realtà differente dallo scenario americano: quello di una nazione divisa, minata dall'integralismo, dove i fondamentalisti religiosi hanno preso il sopravvento e dove la laicità si trova in declino. "Penso che si dovrebbe dare agli americani il premio Nobel per la guerra. Per la loro stupidità!", commenta, con ironia, Ismaël Zayer, caporedattore del quotidiano iracheno Al-Sabah al-Jadid.

Il voto del 15 dicembre scorso ha segnato un passo in avanti nel processo politico del dopoguerra. Gli iracheni, che in gran numero si sono precipitati alle urne, hanno affermato la loro volontà di prendere in mano il loro destino. I sunniti, grandi assenti alle elezioni del gennaio scorso, hanno fatto la loro ricomparsa sulla scena politica. Ma il voto per comunità che è uscito dal nuovo scrutinio rivela la fragilità dell' unità irachena di cui sognava George Bush. La grande coalizione sciita ha conquistato una importante vittoria a Baghdad e nel sud del paese. La lista sunnita arriva in testa in quattro province dell'Ovest e del Nord, al Anbar, Ninive, Diyala e Salahedyne. I curdi, loro, sono i grandi vincitori a Erbil, Suleymaniya e Dohok, province in cui sono maggioritari.


UNA COLLABORAZIONE MOLTO FRAGILE

Quanto alla lista di Allawi, uno sciita nazionalista e laico, favorito degli americani, non supera mai il 14% dei voti. Il suo risultato arriva all'8% su scala nazionale. Ahmad Chalabi, un tempo coccolato da Washington, subisce la disfatta più umiliante. Con appena lo 0,5% dei voti, la sua lista non ha neanche di che assicurarsi un seggio al Parlamento Iracheno.

"È come se la gente avesse preferito votare per la loro identità etnica o religiosa", constatava l'ambasciatore americano, Zalmay Khalilzad, all'inizio della settimana. Aggiungendo: " Ma perché l'Iraq abbia successo, serve una collaborazione interetnica e interreligiosa".

Questa collaborazione si annuncia molto fragile. Dopo l'invasione americana e la caduta di Saddam, nell'aprile 2003, le relazioni tra le differenti comunità non hanno smesso di deteriorarsi. Gli esempi delle torture ai prigionieri sunniti da parte di poliziotti iracheni sciiti non mancano. I partiti politici sunniti accusano il ministro dell'Interno, Bayan Jaber, di agire al soldo del vicino Iran sciita. Al contrario, gli sciiti, regolarmente vittime di attentati, accusano indirettamente i sunniti di sostenere il terrorismo.

"Che siano sciiti o sunniti, noi siamo oggi dominati da gruppi politici religiosi, che rappresentano le due facce di una stessa medaglia", dice preoccupato Baher Butti, uno dei rappresentanti della minoranza cristiana, confessando che pensa d i lasciare l'Iraq, un paese storicamente laico. "I difensori della laicità non hanno più il loro posto qui", aggiunge.

Nel frattempo, i curdi del nord, conosciuti per le loro idee più secolari, continuano a sognare l'indipendenza. "Ci si dirige verso una divisione del paese", nota, pessimista, l'analista iracheno Human Shamaa. Questo perfetto francofono non è convinto della nuova Costituzione, redatta sotto l'egida dell'ambasciata americana, e approvata attraverso referendum l'ottobre scorso. "Secondo il testo", dice, "ciascuna regione può dirigere le proprie forze di sicurezza. È la porta aperta al controllo del sud da parte delle milizie sciite, e al controllo del nord da parte dei peshmerga curdi. E al centro, il campo resterà libero per i terroristi. Siamo a un passo dalla guerra civile", afferma con inquietudine.

In questo contesto di incertezza, alcuni analisti calcolano che una partenza precipitosa delle truppe americane rischierebbe, nei fatti, di rinforzare la violenza interna. "Se gli americani non avessero smantellato l'esercito iracheno alla caduta di Saddam, non saremmo a questo punto!. Oggi, le giovani reclute non hanno sufficiente esperienza per controllare il paese", si infuria Ismaël Zayer.

Il giorno in cui lasceranno l'Iraq, gli americani dovranno rassegnarsi all'ascesa di gruppi più o meno ostili a George Bush. Dal lato politico, il nuovo parlamento iracheno è dominato dai partiti sciiti, le cui idee sono talvolta più vicine a quelle di Teheran - inserito nell'asse del male dal presidente americano - che a quelle di Washington. E nell'arena pubblica, la guerriglia sunnita - strana mescolanza di ex baathisti e di islamisti fondamentalisti - non ha detto la sua ultima parola.

Secondo Movafaq al-Rubai, capo della sicurezza nazionale, essa avrebbe anche la tendenza a radicalizzarsi avvicinandosi alle idee del terrorista giordano Zarqawi. "Nessuno è disposto a morire per il baathismo. Oggi, i salafiti reclutano nelle moschee. In Iraq, la religione è diventata un'arma di distruzione di massa".
Annotazioni − Tradotto da Paola Mirenda per osservatorioiraq.it

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