Da La Repubblica del 15/11/2005

I federalisti immaginari

di Massimo Giannini

Giulio Tremonti è costretto a incassare un brutto colpo dalla Consulta. Non è la prima volta che una sentenza della Corte si abbatte come un macigno sul bilancio dello Stato. Ai bei tempi della Prima Repubblica, quando non c'era ancora il "vincolo esterno" dell'Europa a imporre un po' di sano rigore finanziario, le manovre del pentapartito venivano smontate quasi ogni anno dai giudici costituzionali, costretti a ridurle un colabrodo dall'imperizia o dalla furbizia del legislatore, soprattutto sul fronte della spesa previdenziale. Di per sé, quindi, non è uno scandalo che la stessa sorte tocchi adesso all'ultima Finanziaria del governo Berlusconi.

Il fatto nuovo, e gravido di qualche conseguenza, è che la pronuncia emessa ieri non va a toccare solo la Legge di bilancio di un anno fa, ma anche la posta più "preziosa" dal punto di vista del gettito, e più controversa dal punto di vista politico, di tutta la manovra di quest'anno: i tagli agli enti locali. Una posta che vale all'incirca 3,5 miliardi di euro.

La Consulta, alla luce della riforma del Titolo V approvata nella scorsa legislatura, ha fissato due principi rilevanti. Da un lato ha stabilito quello che lo Stato centrale non può fare: imporre alle regioni, ai comuni e alle province, vincoli sulle singole voci di spesa. Per questo, ha giudicato incostituzionali, perché in contrasto con gli articoli 117 e 119 della Carta riformata nel 2000, due norme della Finanziaria 2005, con le quali il governo aveva obbligato gli enti locali a tagli di spesa sulle consulenze esterne, sulle missioni all'estero, sulle spese di rappresentanza e di pubbliche relazioni nell'ordine del 15%, e su beni e servizi (auto blu, carburanti, carta, mense e così via) nell'ordine del 10%. Dall'altro lato, ha chiarito ciò che lo Stato centrale può fare: imporre «principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica». Per questo, sono legittimi i tetti di spesa di carattere generale, ai quali gli enti locali si possono attenere, ma conservando una propria discrezionalità quanto alla distribuzione dei tagli nei diversi settori dell'amministrazione.

La sentenza è rilevante sul piano tecnico-finanziario. Apre una falla di entità ancora non quantificabile sui conti dell'anno passato. Ma un ammanco rischia di crearsi anche sui conti del 2006. Stando alla motivazione dei giudici, non dovrebbero correre rischi i due tetti complessivi che il governo ha imposto per l'anno prossimo, cioè il 3,8% sulla spesa delle regioni e il 6,7% su quella di comuni e province. Ma nella Finanziaria all'esame della Camera ci sono almeno altre tre norme che hanno le stesse caratteristiche di quelle giudicate illegittime dalla Corte nella manovra 2005. Si tratta dell'articolo 1 del disegno di legge, che al comma 6 fissa agli enti locali una spesa annua 2006 per studi ed incarichi di consulenza esterna non superiore al 50% di quella sostenuta nel 2004. Lo stesso articolo fissa un tetto analogo al comma 7, sulle spese per convegni, mostre, relazioni pubbliche, pubblicità e rappresentanza, e al comma 9 sulle spese sostenute per acquisto e manutenzione delle auto blu. è evidente, adesso, che queste norme non stanno più in piedi. Con buona pace dei rappresentanti della Cdl, che ora saranno costretti a rimettere mano al testo, per non incappare nell'ennesimo strappo costituzionale. Quello della Consulta non sarà un colpo di spugna che cancella l'intera Finanziaria. Probabilmente ha ragione Tremonti a dire che i saldi contabili complessivi non vengono intaccati, e che sarà rafforzato il Patto di stabilità interno. Ma resta il fatto che, nell'aspro contenzioso che vede schierati da un mese e mezzo il governo da una parte, i governatori e i sindaci dall'altra, questi ultimi hanno messo a segno un punto a loro favore.

La sentenza è ancora più importante sul piano politico – istituzionale. Quando i giudici arrivano ad invalidare le norme varate dal governo perché costituiscono «un'inammissibile ingerenza nell'autonomia degli enti locali», svelano la palese contraddizione che ha caratterizzato l'intera legislatura del Polo. Da una parte la retorica padana delle piccole patrie, dall'altra la fame di risorse del solito Leviatano. Da una parte il feticcio della devolution, dall'altra l'icona di Colbert.

Quest'ultima Finanziaria, da questo punto di vista, è un vero capolavoro di funambolismo. La maggioranza, cui si deve una riforma costituzionale che sfascia l'unità repubblicana, evita l'impopolarità di intestare i tagli al Welfare all'Amministrazione centrale, e scarica la responsabilità di "tosare la pecora" alle amministrazioni locali. Ma ora, anche grazie alla Consulta, il trucco è svelato una volta di più. E questo sì, è un colpo al cuore alla politica del centrodestra. Ne mette a nudo la propaganda formale, ma ne tradisce l'inefficacia sostanziale.

Ora si discuterà a lungo se, come dicono Prodi e l'opposizione, bisognerà riscrivere la manovra. Oppure se, come obiettano il Tesoro e la maggioranza, la manovra resta valida e si potrà inserire tutt'al più una norma interpretativa. Ma il punto vero non è questo. A pochi mesi dal voto, dalla Casa delle Libertà viene giù un altro mattone. Tremonti, giustamente, ripete che non si può andare avanti con la spesa fatta in periferia e la «presa» fatta dal centro, che così si rompe il «circuito democratico», che ora più che mai «serve il federalismo fiscale». Tutto vero. Ma hanno governato per cinque anni. E con la maggioranza più schiacciante di tutti i tempi. Nel 2001 il federalismo fiscale era il loro vessillo elettorale, il loro credo laico. Se era così fondamentale, perché non hanno realizzato quello, invece di avvelenare l'Italia di leggi contro la giustizia e contro il buon senso?

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