Da La Repubblica del 04/11/2005

Cia-gate, processo alla Casa Bianca il vice di Cheney: "Sono innocente"

Da febbraio le udienze, si stringe il cerchio su Rove

Il caso giudiziario peserà sulle elezioni politiche di medio termine

di Carlo Bonini

WASHINGTON - Ne ha fatta di strada da Roma il dossier farlocco sull'uranio nigerino. Ieri, è valso una guerra. Oggi, vale un processo che popola gli incubi della Casa Bianca. «Caso numero 1-2005-cr-00394. Gli Stati Uniti d'America contro Lewis Libby. In piedi», declama la giovane cancelliera nera. «In piedi», per annunciare che il calvario della Casa Bianca per una guerra costruita con carte truccate è ufficialmente e simbolicamente cominciato.

Alle 10 e mezza del mattino, tra i mogani e la morbida moquette carta da zucchero della «Cerimonial courtroom», la più solenne e capiente delle aule di giustizia della Corte Federale del District of Columbia, Lewis «Scooter» Libby, ex capo di gabinetto del vicepresidente degli Stati Uniti Dick Cheney, si sottopone all'udienza di incriminazione formale. Al rito di pubblica degradazione che gli impone l'accusa di aver tradito il proprio Paese, ostacolandone la giustizia, mentendo a un gran giurì, giurando il falso sulla Bibbia. E questo per coprire mandanti e complici di una vendetta politica di cui è stato consapevole strumento. Una vendetta che, bruciando attraverso la stampa l'identità dell'agente Cia Valerie Plame, doveva colpire e punirne il marito, l'ambasciatore Joseph Wilson, colpevole di aver svelato al mondo proprio la patacca dell'uranio nigerino e la sua intelligence avvelenata, costruita a Roma e veicolata nel cuore della Casa Bianca.

Sorretto dalle grucce, in un abito blu che lo rende ancora più minuto, strozzato dal nodo strettissimo di una cravatta rosso cardinalizia, Libby appare improvvisamente fragilissimo come solo può esserlo un potente disarcionato. Fende la folla di cronisti che per anni ne hanno mendicato una parola e ora lo aspettano per raccontarne la caduta, evitandone persino lo sguardo. Rivolto al giudice Reggie B. Walton, un nero di nomina repubblicana tirato a sorte per condurre il processo che ha fatto precipitare il gradimento di Bush al suo punto più basso di sempre (35 per cento), Libby dice con un filo di voce: «Con rispetto, vostro onore, mi dichiaro non colpevole delle accuse che mi vengono rivolte».

Non è una sorpresa. Lo è, al contrario, la strategia che il suo team legale annuncia. Cinque avvocati dai nomi lunghi quanto le loro parcelle: Theodore Wells jr. di New York; William Jeffress jr., Alex Bourelly e Terry Bowman di Washington; Joseph Tate di Philadelphia. Una squadra nuova di zecca messa insieme tra quanto di meglio esiste in white collar litigation (nella difesa dei crimini dei colletti bianchi) grazie alle donazioni che nell'ultima settimana hanno reso meno agra l'attesa di Libby. Una squadra che non ha nessuna intenzione di chiudere il processo in tempi brevi e propone di fissare la prima udienza di merito non prima di 90 giorni. Il giudice Reggie Walton ne sembra sorpreso. Chiede a Libby: «Lei ha un diritto costituzionale a un processo giusto e rapido nei tempi. Ha capito che i suoi avvocati non consentiranno un rapido processo? E' d'accordo?». Libby annuisce: «Ho capito e sono d'accordo».

Dunque, prima udienza il 3 febbraio del 2006 e un dibattimento che non consentirà una sentenza prima dell'estate prossima (il procuratore Patrick Fitzgerald ha spiegato che avrà bisogno di «non meno di due settimane di udienze» per esaurire la sua istruttoria dibattimentale).

Per la Casa Bianca, una pessima notizia. Il processo peserà sulla campagna elettorale di metà mandato per l'elezione di Congresso e Senato. Ne governerà gli umori, renderà ancora più difficile per Bush mantenere la disciplina in un partito che già scalpita. La prospettiva che Dick Cheney possa essere chiamato a testimoniare ma, soprattutto, che, di qui al 3 febbraio, sul banco degli imputati possa finire per falsa testimonianza anche Karl Rove, il consigliere del Presidente, ha liberato umori neri. Anche perché la circostanza che Fitzgerald lo abbia sin qui risparmiato è, politicamente, peggio di un'incriminazione. Rove, anche se non rinviato a giudizio, potrebbe perdere il nullaosta sicurezza per la spensieratezza con cui ha gestito le informazioni classificate sull'agente Cia Valerie Plame. Il che lo renderebbe definitivamente un peso morto all'interno della squadra del presidente alla cui credibilità, per altro, ha già prodotto dei danni lasciando che il portavoce della Casa Bianca, Scott McClellan, prendesse pubblicamente posizione, escludendo ogni suo coinvolgimento nell'affare Plame.

Anche per questo, i democratici tornano a sentire dopo anni l'odore del sangue. E sembrano animati da un qualche coraggio. Dopo il blitz di martedì che ha costretto i repubblicani a riprendere in mano l'inchiesta sull'uso politico dell'intelligence che ha giustificato la guerra, ieri, i leader democratici del Senato, con una lettera a Cheney, hanno contestato le nomine di David Addington al posto di Libby e di John Hannah a suo assistente per la sicurezza nazionale. «Entrambi - si legge nella lettera - sono implicati nella vicenda Plame».

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