Da La Repubblica del 01/11/2005

Roma sapeva dal 2003 che non c'erano super-armi

di Carlo Bonini, Giuseppe D'Avanzo

La terrazza dell'Eden di via Ludovisi è inondata di sole. L'alto dirigente del Sismi racconta dell'operazione segreta condotta sul campo in Iraq, alla vigilia della guerra, da una squadra di venti agenti di tre direzioni (Intelligence militare, Operazioni, Antiterrorismo) del nostro servizio segreto. «Quando abbiamo cominciato ad avvicinare generali e ufficiali dell'esercito regolare e funzionari del Baath per invitarli alla diserzione, ci siamo trovati di fronte a uomini disperati. Pronti a barattare il loro patrimonio di informazioni in cambio della promessa di una sopravvivenza fisica e, in qualche caso, politica nel dopoguerra. Siamo così riusciti a comunicare in tempo reale informazioni in loro possesso, diventate poi decisive nel teatro delle operazioni. E' accaduto, per fare un esempio, la notte stessa dell'attacco. Anzi, la mattina all'alba. Erano più o meno le cinque e mezza del 20 marzo quando cominciano a cadere su Bagdad bombe di precisione e missili Tomahawk.


«Il Comando alleato si attende una reazione immediata, come è giusto. Noi italiani siamo sul terreno e abbiamo "occhi" per vedere. Le nostre "fonti" sono allo Stato Maggiore e ci avvertono che sono state attivate le batterie missilistiche nell'area di Bassora. Saddam tenterà di colpire Kuwait City. Le batterie vengono neutralizzate. Dove noi non siamo riusciti a penetrare, sono al lavoro le "fonti" della rete sciita, che ci ha aiutato molto…». L'uomo si fa orgoglioso e serio come se volesse accertarsi che le sue parole siano ben comprese.

«È stata una guerra di notizie. E questa volta noi ne avevamo di buone, dirette e di prima mano. Perché eravamo lì, sul posto. Notizie importanti come quella raccolta dai nostri e confermata dagli sciiti che i ponti minati di Bagdad non sarebbero saltati. Notizie più minute, come la consistenza numerica delle colonne corazzate irachene arretrate dal fronte di Kirkuk verso Bagdad. Notizie essenziali, come la localizzazione del rifugio di Abu Abbas (il palestinese che guidò il sequestro dell'Achille Lauro, arrestato nel 2003 e morto in un campo di prigionia americano nel marzo del 2004, ndr) a Bagdad. Gli americani sono entusiasti. Non si aspettavano da noi una così invasiva, efficace penetrazione nell'Esercito di Saddam. A Washington, siamo delle glorie… Il Pentagono ha scritto una lettera con molte lodi a Berlusconi…».

* * *

Quel che il «funzionario della presidenza del Consiglio» non dice né può dire è che la nostra intelligence e quindi il governo italiano (come l'Iraqi National Congress e quindi il Pentagono) sanno con certezza per lo meno dal gennaio 2003 e (con molte probabilità, dal dicembre del 2002) che, negli arsenali di Saddam Hussein, non ci sono armi di distruzione di massa. Non c'è l'ordigno nucleare. Non ci sono i missili a lunga gittata. Non c'è la possibilità di armare testate missilistiche con veleni biologici e chimici. C'è soltanto un esercito che non vuole combattere e uno Stato Maggiore che attende di arrendersi al miglior prezzo possibile.

È questa l'informazione più preziosa che gli agenti del Sismi, integrati nel network sciita del Consiglio supremo della rivoluzione dell'ayatollah Muhammad Baqir al-Akim e nella rete di spie dell'Iraqi National Congress di Ahmed Chalabi, affidano al Comando unificato della coalizione a Doha. L'esercito iracheno è di cartapesta, malamente armato anche per una modesta guerra convenzionale. Né può essere altrimenti dopo l'estenuante conflitto con l'Iran, l'invasione del Kuwait e la guerra del Golfo del 1991, la lunga fase delle no-fly zones, dell'embargo, delle sanzioni. Nei colloqui con gli agenti italiani, gli ufficiali iracheni, addestrati nelle nostre accademie militari e da Finmeccanica e Selenia, diventati nel corso del tempo generali, liquidano con un amaro sorriso di scherno l'ipotesi che siano in possesso di armi di distruzione di massa. Spiegano ai nostri come i carri armati e i veicoli da combattimento sono relitti della guerra del 1980/1988 contro Teheran, privi di parti di ricambio, molto simili ad arnesi arrugginiti e inutilizzabili. Svelano ai nostri uomini che le Forze Armate di Saddam - dalla bassa forza allo Stato Maggiore - hanno il morale sotto le scarpe, un equipaggiamento approssimativo, in qualche caso nemmeno le scarpe. Sono informazioni decisive. Le forze della coalizione possono dare il via all'intervento senza l'angoscia di chi si prepara a "perdere" 37 mila uomini, come prevede il calcolo statistico sul tasso di perdite di una guerra convenzionale tradizionale (il 15 per cento di 250 mila uomini).

Così, mentre dinanzi all'opinione pubblica mondiale, ancora nel marzo e nell'aprile 2003, viene agitato lo spettro di un'aggressione chimica-biologica, la campagna militare può essere condotta con la convinzione che quelle armi non ci sono. La loro esistenza è soltanto un miracolo della propaganda e della disinformazione.

* * *

Ai "tecnici" della guerra la circostanza non sfugge. «A meno di non ammettere che i generali e i politici americani fossero incompetenti o pazzi o criminali - annota il generale Fabio Mini («La guerra dopo la guerra», Einaudi 2003) - se ci fosse stato davvero il rischio d'impiego di armi di distruzione di massa, le predisposizioni operative e tattiche sarebbe state diverse».

Una serie, anche limitata, di attacchi chimici o biologici, avrebbe infatti potuto produrre perdite elevatissime. Sarebbero state necessarie altre protezioni in aggiunta alla semplice maschera antigas, equipaggiamenti più efficienti e moderni di quelli schierati dalla compagnie NBC (difesa nucleare, biologica, chimica). Le predisposizioni operative, logistiche e quelle sanitarie sarebbero state ben diverse e non si sarebbero dovute vedere le colonne compatte di camion e mezzi cingolati che, dal primo giorno, si sono visti avventurarsi nel deserto iracheno. «Nelle condizioni in cui i soldati della coalizione si sono visti combattere e muovere (fuori dai portelloni dei carri, con le botole aperte, senza sovravestiti protettivi, in colonne immense con distanza intraveicolare quasi nulla) era chiaro che, a livello militare, era stato escluso a priori sia l'attacco con le armi di distruzione di massa sia l'attacco da parte di missili e artiglierie pesanti che, in quelle condizioni, avrebbe fatto dei danni rilevanti con poche granate». Conclusione di Fabio Mini. «Dal punto di vista prettamente militare, doveva quindi essere stato accertato che l'Iraq o non disponeva di armi di distruzione di massa o non aveva i vettori per impiegarle o che entrambi erano stati distrutti prima della guerra e che, se aveva tutto ciò, si sapeva che non le avrebbe impiegate».

Accertare e far sapere che non c'è pericolo. È stata questa la battaglia "invisibile" del Sismi. L'Esercito iracheno non avrebbe combattuto perché non voleva combattere di nuovo un conflitto senza speranza e - anche nell'ipotesi che qualche "testa calda" e irriducibile avesse voluto - non aveva i mezzi per farlo.

Dunque, nella guerra contro l'Iraq - guerra d'intelligence che costringe o convince un nemico pezzente a vendersi senza combattere - l'Italia è in campo. A tutto diritto la si può annoverare nel gruppo di testa della forze della coalizione, appena dopo gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, l'Australia.

* * *

Silvio Berlusconi, prima di convincere innanzitutto se stesso di non aver mai voluto la guerra (come è accaduto in questi giorni), la guerra l'ha fatta per davvero. Discreta, segreta. Il 23 aprile del 2003 non nega che l'Italia abbia combattuto in prima fila. Se ne vanta addirittura. Il presidente del Consiglio è a Portorondo quando legge del «Sismi in Iraq» (la Repubblica). Ammette: «È vero, e credo che siamo stati molto utili alle democrazie occidentali. La nostra posizione nella coalizione non è stata mai in dubbio e quindi la nostra intelligence ha collaborato con gli alleati». Parole inequivocabili che permettono di sottolineare due punti fermi. Facciamo parte della coalizione che combatte in Iraq per il cambio di regime. Alla guerra partecipiamo, non con truppe nel deserto, ma con un lavoro dell'intelligence che è stato molto utile.

Silvio Berlusconi sa essere un rumoroso gaffeur. Quindi, anche onesto. Manda per aria, con due frasi, l'architettura di doppiezze politiche e imbrogli istituzionali che ha definito il ruolo dell'Italia nella crisi irachena. La formula della non belligeranza, scelta dopo qualche ondeggiamento, assegna all'Italia soltanto un sostegno politico all'alleato americano senza la partecipazione diretta alle operazioni militari. Ma il lavoro invisibile e segreto del Sismi sul terreno, in appoggio alle truppe d'invasione, è «belligeranza» o «non belligeranza»? È combattimento o, strapazzando un po' il vocabolario, si può dire appoggio politico? Se non si è farisei, è difficile avere dubbi. In una guerra che, fin dalla fabbricazione a tavolino delle ragioni per dichiararla, è stata soprattutto una gigantesca operazione di disinformazione e intelligence, il lavoro degli agenti del Sismi che per quattro mesi, sotto falsa identità a Bagdad, barattano il tradimento dei gerarchi di Saddam e misurano l'inconsistenza della difesa militare irachena e l'assenza delle armi di distruzione di massa è partecipazione alla guerra. È combattere. Significa stare in prima linea.

Negarlo è ingannare il Paese e ha lo stesso sapore della menzogna che consente alle istituzioni e al governo di nascondere la violazione degli articoli 10 e 11 della Costituzione, o della fanfaluca che permette al Parlamento di non considerare calpestato il voto che impegna la nostra presenza militare in Iraq all'intervento umanitario e di pace (peace-keeping, peace-making, peace-enforcing) una volta conclusi i combattimenti, che - come si sa - ancora oggi proseguono nelle forme del terrorismo, della guerriglia, della guerra civile.

Il Sismi ha combattuto in Iraq, dunque. La considerazione cade in un vuoto politico. Si può ora soltanto osservare quali sentieri inesplorati apra a un governo e al lavoro dell'intelligence questa straordinaria vittoria sulla verità; quale prezzo paga la qualità della nostra democrazia.

* * *

Le parole di Berlusconi in Sardegna risuonano troppo avventurose nella Capitale. Palazzo Chigi si precipita a correggerle con una nota. La nota deve essere però accorta e saggia. Minimizzando, deve saper dissimulare la cosa (la partecipazione alla guerra) e lanciare un avvertimento politico: tutti sapevano. Quindi, anche se una violazione della «non belligeranza» c'è o potrebbe essere contestata, chi può lanciare la prima pietra? La presidenza del Consiglio conferma: «Il servizio ha curato, come da suo dovere istituzionale, attività di intelligence e non certo operazioni militari. Pertanto si esclude qualunque partecipazione ad operazioni belliche, quali interventi sul terreno per illuminare obiettivi militari».

Se si esclude che a Palazzo Chigi credano che l'espressione "illuminare obiettivi militari" significhi accendere la luce di una torcia - o che nel palazzo del governo non sappiano che, da che mondo è mondo, non c'è azione militare senza attività di intelligence - il comunicato riconosce che il Sismi è stato all'opera in Iraq. Naturalmente non di sua iniziativa. «Si conferma, prosegue la nota, che della natura svolta dal servizio sono informati il governo e il comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti».

Quindi il governo sa e sa anche il comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti presieduto da un esponente dell'opposizione, l'ex-ministro dell'Interno Enzo Bianco. Tutti (governo, maggioranza, opposizione, organi di controllo) sono a conoscenza di una storia italianissima per compromessi e furbizia che così va raccontata: formalmente stiamo lontani dalla guerra; siamo non belligeranti; il nostro impegno sarà soltanto umanitario. In realtà, aggirando i vincoli costituzionali, siamo sul campo di battaglia. Non con le armi, i soldati e i carri armati (le finanze disastrate e il mammismo nazionale, oltre che la Carta, non ce lo consentono), ma con le intrusioni e le infiltrazioni di agenti segreti in azioni, organizzate dal Pentagono, che contano sulla collaborazione degli sciiti dello Sciri e dell'Iraqi National Congress.

L'assoluto oblio che, in capo a poche ore, nasconde all'opinione pubblica e al dibattito politico la conferma della presenza della nostra intelligence militare nel «teatro di guerra» con un ruolo risolutivo per le forze della coalizione anglo-americana è (con la "veicolazione" del falso dossier uranio) lo spartiacque tra un prima e un dopo del nostro servizio segreto e della nostra politica della sicurezza. È l'inizio di una stagione. È un'epifania. Si può dire che la commistione con gli uomini e i metodi del Pentagono produce anche in Italia quel che già è stato seminato e raccolto negli Stati Uniti: la politicizzazione dell'intelligence. L'operazione, come primo effetto, confonde la trasparenza del quadro di comando. Si deformano le linee dirette di responsabilità politica (Berlusconi-Letta-Martino-Pollari). Su Pollari pesano ora i "piani" di Washington e le influenze di un gruppo di pressione ben organizzato installato all'interno del Pentagono (Office for special Plans). Lo slittamento di obiettivi e metodi si specchia anche nella variazione del quadro di riferimento istituzionale. Il direttore del Sismi non risponde più al ministro della Difesa, che pure gli rifila la presenza in Italia di Michael Ledeen. Lavora, di concerto, con il consigliere diplomatico della presidenza del Consiglio Gianni Castellaneta (di fatto, il "consigliere per la sicurezza nazionale italiano", con un filo diretto con Condoleezza Rice e Stephen Hadley). È, senza mediazioni o collegialità, alle dipendenze di un Berlusconi che dialoga direttamente con Bush. Al presidente degli Stati Uniti, il premier italiano consegna, vantandosene, intelligence e ne riceve indicazioni che diventano "agenda" per il nostro servizio. Mentre Gianni Letta intrattiene, con modi cortesi, l'opposizione coinvolgendola in operazioni di cui svela l'inessenziale.

In questi giorni di furiose polemiche e di smentite che non smentiscono, nessuno sembra aver voglia di "guardare la palla". Ci si accapiglia sul destino di Nicolò Pollari che, al contrario, appare il bruscolo nell'occhio. Non la trave. Poteva Pollari decidere da solo di mandare i suoi uomini in guerra? Poteva, senza un'indicazione o una copertura politica, avventurarsi lungo il sentiero assai sdrucciolevole della disinformazione e dei dossier fasulli? È utile al governo tenere la testa di Nicolò Pollari sul ceppo. Concentrata l'attenzione sul direttore del Sismi, o sprofondato il suo destino nell'eterno conflitto tra apparati (come pare credere anche una parte dell'opposizione), si possono non prendere in esame la pianificazione della guerra, l'intelligence manipolata che l'ha giustificata, l'impiego dei nostri uomini direttamente sul campo di battaglia. Si può nascondere chi, di quelle operazioni, ha avuto la responsabilità politica. Il ministro della Difesa Antonio Martino, il "consigliere per la sicurezza" Gianni Castellaneta, lo stesso presidente del Consiglio. È l'Italia a cui piace far volare gli stracci.

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