Da La Repubblica del 01/11/2005

La "nuova Russia" è ricca in apparenza, ma scossa dal terrorismo e dalle guerre di potere

Putin e il villaggio Potemkin

di Sandro Viola

MOSCA - A prima vista, e soprattutto se la si guarda da Mosca, la Russia di Putin sembra che scoppi di salute. Si presenta proprio come Putin vuole che sembri. Stabile, governata con mani salde, ormai ristabilita dopo gli spasmi della transizione. Non solo. Questa Russia è anche traboccante di danaro grazie al continuo aumento dei prezzi del petrolio, riverita nel quadro del mercato globale, galvanizzata – almeno nelle grandi città – da un impetuoso sviluppo urbanistico e dalla corsa ai consumi di lusso.

Insomma il restauro iniziato cinque anni fa da un gruppo di ex ufficiali e funzionari del Kgb, si direbbe finito. Del resto, basta osservare come la Russia si sta muovendo sulla scena internazionale. Quanti segni cominciano ad affiorare, infatti, della boria d'un tempo.

«Lo sa», mi chiede Alexeij Makarkin, uno storico devoto all'idea della «grandeur» russa, «chi sono i ministri degli Esteri portati ad esempio nei corsi per i nostri giovani diplomatici? Il primo è Andreij Gromiko, il più duraturo dei capi della diplomazia sovietica. Il Gromiko di cui non esiste una sola fotografia che lo veda sorridere ad un governante occidentale, e che anzi è andato a qualsiasi incontro, per più di trent'anni, sempre con lo stesso sguardo duro, la stessa smorfia di vago disgusto. E l'altro è Alexandr Gorciakov, il ministro di Alessandro II che rompendo gli accordi presi dopo la sconfitta russa nella guerra di Crimea, riportò la flotta zarista nel Mar Nero. Senza curarsi delle eventuali reazioni delle potenze, che infatti non vennero».

Sì, le casse della Federazione russa sono piene di soldi.

Quando nel 2000 Putin ascese al Cremlino, il petrolio costava 26-27 dollari al barile: oggi oscilla tra i 60 e i 70, e la Russia è seconda tra i paesi produttori. Vacche grasse, quindi. Le rate dell'enorme debito estero ereditato dall'ultima Urss e da Eltsin, vengono pagate puntualmente o addirittura in anticipo.

All'interno, l'erosione del consenso che all'inizio dell'anno aveva impaurito il regime perché sembrava un contraccolpo della rivolta in Ucraina, è stata contenuta grazie ad una frettolosa, disordinata ma larghissima spesa sociale, manifestamente populista.

D'altronde, è cosa nota: un governo, un regime che abbiano ampie possibilità di spesa perché la loro Banca Centrale è stracolma di riserve (e quella russa ne ha oggi per 160 miliardi di dollari), non sono quasi mai pericolanti.

Dunque, stabilità.

Intanto la sete mondiale di petrolio, la gara ad inserirsi il meglio possibile nel grande mercato russo, oltre ai calcoli politico-strategici, hanno fatto tacere le critiche dei governi occidentali al crescente autoritarismo del Cremlino.

Comprese le lezioni di democrazia che il presidente americano aveva impartito a Putin, addirittura in pubblico, sino alla scorsa primavera. Quando oggi parla agli interlocutori europei, Mosca lo fa infatti col tono fermo, se non si deve dire altezzoso, di chi fornisce all'Europa metà del gas e un terzo del petrolio che le sono indispensabili. «E se poi il petrolio dovesse andare a 90 dollari», scherza Vladimir Pribilovskij, un osservatore politico da cui vado a cercare lumi, «Putin potrebbe anche impiccare un paio d'oppositori sulla piazza Rossa, e nessuno in Occidente aprirebbe bocca».

L'ho detto all'inizio: in questa Mosca asfissiata dal traffico, dove in cinque anni il numero delle automobili è quadruplicato e si vedono più Bentley e Rolls Royce che a Londra, in cui abitano più miliardari che a New York e l'industria del lusso ha uno dei suoi più floridi bazar, ci sono momenti in cui l'immagine d'una Russia guarita, in piena ripresa, sembra indiscutibile. Ma se dico che questo succede "a momenti", è perché dopo poco è un'altra immagine a sovrapporsi più nitida e convincente alla prima.

L'immagine d'una facciata luccicante dietro la quale le cose non stanno come sembrano a prima vista. E da queste parti, è ovvio, l'idea di "facciata" richiama immediatamente alla memoria i trucchi d'un grande illusionista, il principe di Tauride: quel Grigorij Alexandrovic Potemkin che mascherava i miserabili villaggi russi con facciate di legno e cartapesta simulanti civili costruzioni, così che dalla carrozza la sua sovrana e amante, Caterina II, potesse credere ad una Russia meno povera e arretrata.

La Russia di Putin è un "villaggio Potemkin", una fragile scenografia, un'illusione ottica? La cosa certa è che ogni tanto s'apre uno spiraglio, e dietro la facciata si vede un'altra Russia. Faccio un esempio. Una mattina ero andato a trovare due delle persone che vedo sempre quando sono a Mosca, un giornalista e uno dei sedicenti "politologi" spuntati in questi ultimi anni, ambedue critici nei confronti del regime. Avevo chiesto della situazione in Cecenia, e le loro risposte erano state molto simili.

«Purtroppo tutto resta tale e quale, nel senso che non si vedono possibilità d'una soluzione politica. E non si vedono perché Putin non le vuole. Ma sul piano militare la guerriglia è da un anno, dopo la strage di Beslan, nell'angolo. Controlla due o tre zone della montagna, nient'altro».

Ventiquattr'ore dopo Mosca era sconvolta, ammutolita, dalle notizie dell'attacco sferrato dai terroristi ceceni sul capoluogo del Kabardino-Balkaria, duecento chilometri dalle loro basi. Un battaglione di guerriglieri era filtrato impunemente attraverso i tanti posti di blocco che la polizia e l'esercito russo mantengono da anni sulle strade del Caucaso settentrionale, aveva potuto raggiungere una grossa città e l'aveva messa a ferro e a fuoco. Non un attentato di poche persone, quindi, le bombe a tempo o i kamikaze che possono compiere una strage in qualsiasi capitale dell'Occidente, bensì una vera e propria azione bellica.

Questo si vede dietro la facciata. Un regime autoritario composto da migliaia di ex ufficiali dei servizi segreti e dell'apparato di sicurezza, con un bilancio militare cresciuto dai 9 miliardi di dollari del 2001 agli attuali 24, che non riesce a fermare le incursioni lanciate negli ultimi quattro anni in tutto il Caucaso settentrionale, e persino nel cuore di Mosca, dalla guerriglia cecena. Ora: dove vanno cercate, se non nell'inefficienza del tramonto sovietico, le cause di questa sbalorditiva porosità delle difese antiterroristiche russe? Né si tratta soltanto d'antiterrorismo. Affondano uno, due, tre sommergibili, e se una volta s'è potuto salvare dalla morte un equipaggio è perché la Marina inglese era accorsa con i suoi specialisti. O ancora: Putin va ad assistere al lancio d'un nuovo missile, generali e ministri sono lì tutti schierati, ma il missile non parte e il presidente se ne va furioso. Che altro, per definire le forze armate sovietiche un "villaggio Potemkin"?

Ridacchia Ghiorghij Satarov, sociologo, uno dei liberali superstiti dell'era Eltsin. «Sì, è vero. Disfunzioni madornali». La "verticale del potere", come la chiama Putin, vale a dire l'estrema concentrazione dei poteri nelle stanze del Cremlino, non produce efficienza. Ma in certe cose il regime è poi efficientissimo.

Pensi alla nuova classe di boiardi che sta venendo fuori dai ritorni dello Stato nel settore industriale, e soprattutto in quello energetico dopo la frantumazione della Yukos. Sono decine di persone passate direttamente dagli uffici del Cremlino al vertice dei giganti del gas e del petrolio. «Come dire che poco, molto poco sta cambiando. Prima la "nomenklatura" sovietica, poi gli "oligarchi" di Eltsin, adesso i boiardi formati nelle scuole del Kgb.

Sono questi aspetti che fanno insistentemente pensare ai trucchi del principe Potemkin. Come se il restauro dell'immagine della Russia, cui Putin s'è dedicato con tanto impegno e fervore (stabilità interna, aumento della spesa militare, diplomazia senza sorrisi) dovesse servire soprattutto a celare quel che resta delle arretratezze e zoppìe dell'Urss. Il 25 per cento dei russi, come ha detto lo stesso Putin, sotto la soglia di povertà. Il trenta per cento senza acqua corrente, l'età media degli uomini ridotta a 58 anni, l'Aids che si diffonde a ritmo africano.

«L'Urss? No, adesso è peggio», commenta un amico: «allora, quanto meno, il monopolio del potere da parte del partito comunista era sancito dalla Costituzione. Adesso la Costituzione sancisce il pluralismo, ma tutti i poteri sono lo stesso nelle mani d'un ristretto gruppo di persone». In effetti io stesso annuso il tanfo dell'ultimo decennio dell'Urss. A Mosca non si fa che parlare della successione a Putin, quando nel 2008 scadrà il suo secondo mandato. A quanto sembra non ci saranno ritocchi costituzionali per consentirgliene un terzo, sicchè Putin e i suoi dovranno designare un candidato e insediarlo alla presidenza. Ma quando chiedo ai "politologi" se intravedano chi potrà essere il prescelto, buio completo.

Ipotesi vaghissime. E la memoria va alla fine degli anni Settanta, con Breznev più morto che vivo, quando si veniva a Mosca per capire chi avrebbe potuto succedergli: Kirylenko, Griscin, Andropov o chi altro? No: neppure questo, la segretezza del potere, è cambiato.

Insomma, come mi spiega Nikolaij Petrov al Carnegie Endowment, «una stabilità che non poggia sulle istituzioni, ottenuta esclusivamente con metodi autoritari». Il fatto è che dall'altro versante, quello dell'opposizione, non viene alcun segno d'una possibile alternativa al regime. Un uomo che ammiro, Vladimir Rizhkov, il più coraggioso e pugnace oppositore che segga sui banchi della Duma, mi parla con molto calore delle riunioni in cui i liberali stanno decidendo d'unirsi in vista delle elezioni politiche del 2007: ma dimentica che m'aveva detto le stesse cose un anno fa, e nel frattempo i liberali stanno ancora accapigliandosi.

Così, è assai probabile che la Russia di Putin duri ancora un bel pezzo, sopravviva ai rigori d'altri parecchi inverni russi.

Una vittoriosa campagna elettorale dell'opposizione, o una violenta protesta di massa come a Kiev, sono per ora impensabili. «E' come al tempo dell'Urss», sostiene Grigorj Yavlinskij, uno dei leader liberali: «non ci sono alternative. Allora i russi votavano per Stalin e poi per Breznev, adesso votano per Putin».

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