Da La Stampa del 02/11/2005

Ahmadinejad e Israele

La rischiosa scommessa iraniana

di Igor Man

HA vinto Khomeini», così il 25 di giugno commentammo l’inopinato trionfo elettorale di Mahmoud Ahmadinejad, il sindaco di Teheran messo in corsa all'ultimo momento dall’ayatollah Khamenei, Guida Suprema, della Teocrazia iraniana, promosso, lui khomeinista duro, eroe di guerra, presidente della repubblica islamica. Leader in fatto dei mostazafin (senza scarpe), i sanculotti islamici, il minuto, acceso sindaco dalla barba incolta e dall’andazzo pupulista, ha promesso «immediate» leggi e provvedimenti municipali volti a sollevare un paese ricco sì di petrolio ma altresì di disgraziati sull’orlo del pauperismo. Un paese antico ma tutto di giovani; il 70% della popolazione ha meno di trent’anni, e i figli della rivoluzione a mani nude son diversi dai loro parenti adulti e poco si curano degli ultimi epigoni in sottana di Khomeini. «La gioventù della T-shirt», l’hanno chiamata: perchè anche se non manca mai di maledire, in pubblico, il Grande Satana, cioè gli Stati Uniti, nel privato sogna di somigliare ai coetanei di quel paese fascinoso che immaginano felice, divertente, facile. Codesta gioventù è la conferma vivente che il regime versa in «coma terminale».

Il potente Bazar, vale a dire la poderosa mafia del business (dalla grande distribuzione al commercio al dettaglio) s’è fatta un po’ di conti concludendo che quelli promessi ai mostazafin sarebbero «soldi buttati in una idrovora» a tutto danno del business organizzato bisognoso di finanziamenti, di agevolazioni fiscali. Così il Bazar ha accusato il populista di «culto della personalità». E’ vero che Ahmadinejad non conosce l’inglese, che non è mai stato all’estero (primato condiviso con la guida Khamenei), ma è altresì vero che l’assista un fiuto politico davvero forte. Ogni anno a partire dal 1979 in Iran si celebra una sorta di seminario pubblico sul «nemico più grande della Umma» (la vasta, rissosa famiglia islamica), vale a dire il Sionismo, fosco «mandatario» del Grande Satana. A spalla seguono, fino al 4 di dicembre, le giornate dedicate ad Al Quds, Gerusalemme, per riaffermare il diritto dei palestinesi alla patria.

Il regime khomeinista, nel 1979, era ai suoi primi passi e Khomeini tirò fuori dal turbante l’asso di quadri: la maledizione del Sionismo, l’esaltazione dei fedayn. Disse allora Khomeini: «Israele va spazzato via dalla cartina geografica» e lo stesso ha detto Ahmadinejad nel contesto d’un discorso incentrato sulla «guerra di civiltà» che oppone «da centinaia di anni» l’islàm alle altre religioni. «... per il resto il presidente iraniano s’è limitato a citare lo slogan di Khomeini che da decenni è riportato nei murales a Teheran, è ritmato durante le preghiere del venerdì e apre la tradizionale parata, stile Piazza Rossa, nell’anniversario della rivoluzione del 1979», scrive Carlo Panella (cfr. Il Foglio del 28 ottobre) che ricordo a Teheran inviato speciale di Lotta Continua, intento a raccoglier materiale per un saggio a quattro mani con Adriano Sofri, Quaderno dell’Iran (Roma 1980), utile tutt’oggi per farsi un’idea seria della rivoluzione khomeinista.

Da buon animale politico, il neo presidente con i suoi interventi incentrati sulla «necessità sacra» di distruggere Israele, ha drammatizzato la festività di regime già stanca routine. Lo ha fatto soprattutto per motivi interni. Si vuole che cospicui rappresentanti della mafia del business abbiamo cercato di allertare la Guida Khamenei insinuando che l’ambizioso sindaco-presidente «miri in alto». In un paese dove l’ultima parola è quella del Consiglio dei Saggi che fa sistema con la Guida, il presidente della Repubblica, ancorché plebiscitato, vale quanto il 2 di coppe: tutti gli strumenti del potere sono nelle mani del Gran Consiglio, dalla polizia segreta alla sanità, eccetera. Ciò spiega perché Khatami, eletto con oltre il 70% dei suffragi, lui il presidente della speranza abbia deluso un po’ tutti: dai suoi concittadini alle cancellerie occidentali. Anche Ahmadinejad vale quanto il 2 di coppe, con una differenza. Importante assai. Egli è seguito con attenzione dalla potente milizia popolare (i basiji, appunto), e per i sanculotti che l’hanno votato «con passione e convinzione» rappresenta l’unica (e ultima, forse) speranza di emancipazione. Ha dunque una sua «base» e piuttosto consistente, il populista Ahmadinejad. E questo gli consente di affrontare col Bazar un braccio di ferro arbitrato da Khamenei la cui linea di intransigenza (antisionismo, emancipazione nucleare) collima con la sua. Egli, il presidente eroe di guerra, parla alla sua gente e per motivarla deve necessariamente andare sui registri alti dello spartito demagogico, deve praticare la surenchère più smaccata, in caso contrario non lo capirebbero ed egli resterebbe al palo, rischiando la rovina: politica, personale.

Non basta: il presidente-populista sa meglio di noi che gli Stati Uniti sono in difficoltà: l’Iraq minaccia di durare almeno dieci anni così com’è: un inferno. E’ vero che una democrazia può convivere col terrorismo, con una guerriglia ostile, resistere infine vincere ma è il costo (in vite umane, in dollari) a sgomentare. Nella sua personale esaltazione, nel quotidiano esercizio di scalata al potere effettivo, reso imprudente dalla totale ignoranza dello stato del mondo, ignoranza che lo rende schiavo dell’autostima e del rischio mal calcolato, Mahmoud Ahmadinejad non sembra destinato a vincere la partita. Ma può pareggiarla: placando le sue smanie nucleari (gli sciiti sono maestri del compromesso) sì da tener buoni europei e americani. Certamente Ahmadinejad, lui che apparteneva agli «studenti favorevoli alla linea dell’imam», lui che gestì gli ostaggi senza nessun rispetto umano, provi a guardarsi un po’ in giro: gli Stati Uniti saranno senz’altro in difficoltà ma sono in grado di rovesciare la situazione se necessario anche domani. E se è vero che l’esecrazione di Sharon è in buona parte politica, è anche vero che Israele può alla fine «arrabbiarsi sul serio». Sarebbe bene che il presidente-populista si andasse a leggere quanto accadeva nel mondo alla vigilia della Guerra dei Sei giorni: tutti temevamo per la sorte di Israele e invece, in 74 minuti, la sua aviazione triturò la possente armata egiziana faticosamente costruita dai russi.

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