Da La Repubblica del 28/10/2005

Baku sotto assedio aspetta la rivoluzione

L'Azerbaijan al voto, il regime proibisce il colore arancione

Vigilia di fuoco delle elezioni parlamentari del 6 novembre. Già pronta la protesta contro i brogli

di Giampaolo Visetti

BAKU - A un anno dalla rivoluzione in Ucraina, a due da quella in Georgia, l'uragano della democrazia all'occidentale spazza ora l'Azerbaijan. Il presidente Ilham Aliev, tempestosamente succeduto al padre nel 2003, ha ordinato di togliere dal commercio ogni oggetto arancione. Alla vigilia delle elezioni parlamentari, il colore delle rivolte contro i leader post-comunisti sopravvissuti all'Urss domina però le vetrine nel centro di Baku.

Il petrolio-record e il nuovo oleodotto che collega il Caspio al Mediterraneo senza passare da Russia, Armenia o Iran, riportano la nazione ai fasti internazionali del passato. Nei prossimi cinque anni la corsa al greggio azero vale 100 miliardi di dollari. Nella capitale di uno dei Paesi più corrotti al mondo, 235 grattacieli in costruzione soffocano così i quartieri sovietici ancora sventrati. Il bilancio dello Stato, nel 2006, aumenterà del 70 per cento. I marchi del lusso europeo, a prezzi londinesi, occupano i palazzi eleganti di fine Ottocento. Decine di ristoranti, ricavati negli antichi caravanserragli, espongono la scritta "esaurito". Un centinaio di night, dove le donne più emancipate del mondo musulmano danno la caccia ai manager delle multinazionali, sono affollati fino all'alba.

I cittadini più fortunati guadagnano però 50 dollari al mese, un abitante su due è disoccupato, le strade asfaltate terminano alla periferia di Baku, nelle regioni mancano luce, acqua e gas. La guerra congelata nel Nagorno-Karabakh riduce alla fame migliaia di profughi. Nei bazar, professori e medici non riescono più a vendere le melegrane dell'orto.

Poche famiglie e clan, partoriti dalla fusione tra medioevo e comunismo, si spartiscono tutto sotto gli occhi di British Petroleum e Chevron. A chi tocca il petrolio, a chi i dazi doganali, a chi i trasporti, a chi il caviale: pubbliche fortune miliardarie al sicuro di conti esteri privati. La spietatezza della corruzione è moltiplicata dall'annunciato boom economico e da un potere dilaniato dalla lotta scoppiata dopo la morte di Heydar Aliev. Manifesti, quadri e monumenti del vecchio presidente, a cui ogni edificio statale resta dedicato, invadono ancora strade e negozi.

L'enfasi della celebrazione non basta però più a tutelare il finora più liberale figlio. Per questo l'opposizione filo-occidentale ha deciso di non attendere le presidenziali del 2008. Le manifestazioni in piazza hanno assunto cadenza settimanale. Cortei, finti concerti e comizi, dalla periferia della capitale sono stati trasferiti verso il centro. Da settembre, quando alle proteste hanno iniziato a partecipare migliaia di persone, i raduni non vengono più autorizzati. Gli oppositori, in collegamento con Kiev e Tbilisi, hanno adottato colori, slogan e metodi della rivoluzione ucraina. In piazza della Libertà, sul lungomare dove i tumulti di due anni fa causarono morti e feriti, alzano ora garofani rossi e gridano «lo Stato è di tutti». Dura la reazione della polizia. Cariche con bastoni e manganelli, arresti di massa, minacce. Chi manifesta, dopo il pestaggio, perde il lavoro. Le notti sono segnate dalle retate nelle case.

Ilham Aliev, sostenuto da Mosca, teme un altro "Maidan" e inasprisce la repressione. Il presidente è deciso a difendere la dinastia, la Russia a impedire un'altra rivoluzione nell'ex impero e per di più nel Caucaso, alle porte di Asia centrale e Iran. Baku è così ormai militarizzata, sotto controllo giornali e tivù, mobilitati migliaia di agenti in borghese. A guidare alle urne il partito presidenziale, l'affascinante moglie di Aliev, Meriban, e una ventina di parenti. Dietro la first lady del Caspio, un esercito di fratelli dei ministri e di cugini della nomenclatura.

L'ora fatale sarà nella notte del 6 novembre, dopo la fine del ramadan e alla chiusura dei seggi. Il blocco dei tre partiti d'opposizione chiamerà il popolo in piazza contro gli annunciati e tradizionali brogli. Senza falsificazioni, gli oppositori assicurano di poter conquistare il 75 per cento dei 125 collegi, rispetto agli attuali 19 seggi parlamentari. Se gli imbrogli di Stato eviteranno il terremoto, migliaia di insorti chiederanno l'annullamento del voto, nuove elezioni e le dimissioni di Aliev.

La rivolta sarà pacifica, ma si annunciano settimane di assedio ai palazzi del potere. La scintilla della rivoluzione dipende dalle procedure elettorali, dal conteggio e dagli oltre mille osservatori internazionali. Il presidente ieri è corso ai ripari.

Ha concesso un complicato prelievo, con inchiostro trasparente, delle impronte digitali degli elettori. Troppo poco e troppo tardi anche secondo l'Osce, che ha diffuso un allarmato rapporto. Si temono migliaia di schede pre-votate, falsi elettori, votanti plurimi. Una decisa censura Osce del voto, rispetto agli standard internazionali, sarà usata dall'opposizione quale appello alla rivolta.

Dopo il tentato golpe di una settimana fa nessuno azzarda però previsioni. Aliev, allertato dai servizi segreti russi, ha improvvisamente licenziato e fatto arrestare mezzo governo. Nelle case dei ministri più potenti e filo-occidentali, accusati di aver tramato con l'opposizione per organizzare un colpo di Stato, sono stati sequestrati milioni di dollari, quintali d'oro e diamanti.

Il trionfale ritorno in patria del leader democratico Rassul Guliev, esule negli Usa da dieci anni, è stato sventato in extremis. La caduta dei corrotti ha attenuato l'odio popolare verso Aliev. Il presidente azero e il suo alleato al Cremlino sanno però ora di avere un nuovo e potente nemico interno: pronto ad ogni accordo con l'opposizione, con l'Europa e con gli Stati Uniti. Potrebbe non bastare, per rovesciare subito il regime: ma basterà a garantire una marcia definitiva verso valori e interessi dell'Occidente.

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