Da El Pais del 10/10/2005

Cisgiordania, tra gli ultrà della fede

A confronto con un colono ortodosso e un combattente della Jihad

I settlers parlano con dolore delle evacuazioni imposte da Sharon: "Per noi è stata una sciagura"
L'estremista islamico riceve in una stanza tappezzata di poster che dicono "Allah è grande"
Entrambi hanno risposte semplici a ogni domanda e non accettano discussioni
Sembrano venire da due mondi opposti, ma a guardarli bene in comune hanno molte cose

di Mario Vargas Llosa

I credenti assoluti mi hanno sempre innervosito, anche se mi suscitano una certa invidia. Perciò non mi sento a mio agio nella casetta di Ezechiel e Odeya, coi loro tre bellissimi bambini che ci saltellano intorno. Ci troviamo in una delle linde villette dell'insediamento israeliano di Mizpeh Jerido, in Cisgiordania, dove vivono 300 famiglie (circa 1500 persone) militanti del movimento dei coloni e religiosi a oltranza. Non vanno confusi con gli haredim, i bizzarri abitanti di Mea Sharim a Gerusalemme, o del quartiere di B'nei B'rak a Tel Aviv, che ostentano i berretti di pelliccia e i pastrani dei loro antenati dei ghetti russi o polacchi e parlano yiddish: molti di loro rifiutano di riconoscere lo stato di Israele, sostenendo che ritardi con la sua esistenza l'arrivo del Messia. Gli haredim sono però una ristretta minoranza, mentre il movimento dei coloni ha una consistenza complessiva di decine e forse centinaia di migliaia di adepti, fautori del nazionalismo, del messianesimo e dell'ortodossia nelle sue espressioni più estreme. Amos Oz, che li definisce «pericolosissimi» per il futuro democratico di Israele, ha sicuramente colto nel segno.

Eppure, nessuno prenderebbe per un fanatico il 27enne Ezechiel Lifschitz, di padre israeliano e madre americana, affabile e delicato - almeno finché non parla di politica o di religione. Simpatico e pronto alla risata, si prende amorevolmente cura dei figlioletti e sopporta le loro marachelle con infinita pazienza. Due sono le parole che gli tornano costantemente alle labbra: «bontà» e «amore»; ma nei suoi occhi chiari, quasi liquidi, c'è lo sguardo di chi si sa in possesso della verità, e non è mai colto da un dubbio. Ezechiel è ingegnere informatico, e come molti altri coloni di Mizeph Jerico lavora a Gerusalemme, a mezz'ora di strada da lì.

«Noi credenti vediamo le cose in maniera diversa», mi dice. «Dio ha fissato una meta a ogni nazione. Il nostro ritorno in Israele era scritto nella Torah: e ora siamo qui. La nostra meta è ricostruire il paese che avevamo perduto. Così Israele darà il suo contributo per un mondo migliore. Questa terra ci è stata data da Dio, e Israele non potrebbe compiere la sua missione se non la rioccupasse tutta, senza decurtazioni - compresa la Giudea, la Samaria e Gaza».

Ezechiel e Odeya sono appena tornati da Gaza, dov'erano stati con varie migliaia di coloni a manifestare la loro solidarietà agli abitanti dei 21 insediamenti evacuati per ordine di Sharon. I genitori di Odeya, una ragazza timida e magra che sembra sommersa nel suo vestito troppo largo sono vissuti per 24 anni a Gush Katif, un insediamento costruito con le loro mani su un terreno che all'epoca era un deserto pietroso e rovente, infestato dai serpenti. Per loro quest'evacuazione è uno strappo doloroso. E non è la prima. Ventiquattro anni fa lo stesso Ariel Sharon, allora ministro della Difesa, li costrinse a lasciare l'insediamento di Yammit, nel Sinai, sul territorio restituito all'Egitto. Mia figlia Morgana e il suo fidanzato li hanno conosciuti a Gaza, quando tra pianti e preghiere speravano ancora che Dio apparisse per impedire quell'inconcepibile ingiustizia: «gli ebrei scacciati dalla terra ebraica».

«Per noi credenti, che amiamo la nostra nazione e il nostro esercito, l'evacuazione di Gaza è stata una grande sofferenza», aggiunge Ezechiel. «Nella comunità di Gush Katif, a Gaza, dove vivevano i genitori di Odeya, c'era un clima meraviglioso, e una dedizione costante al culto. Nessuno mai chiudeva la porta di casa. Mai un furto né un delitto, solo religione, cultura e tanta felicità per i bambini».

Curiosamente, nella sua argomentazione, Ezechiel - come del resto gli altri coloni - non pone in primo piano lo straordinario lavoro compiuto in condizioni difficilissime, con diligenza e spesso con eroismo, portando l'acqua in quelle terre deserte e sterili per trasformarle, grazie anche alle nuove tecniche, in comunità prospere e moderne. L'argomento che gli viene spontaneamente alle labbra per difendere la legittimità dell'occupazione è di segno divino: «Questa terra è nostra perché ci è stata data da Dio». Una ragione che però è valida solo per i credenti.

Una cosa è certa: se ho incontrato Odeya, non avrò mai la possibilità di vedere la moglie di Nafiz Azzam. Per gli islamisti messianici, la donna è un oggetto da non esporre alla pubblica contemplazione. I due credenti che ho incontrato, nemici inconciliabili, non potrebbero essere più diversi; eppure tra il giovane colono israeliano e l'estremista musulmano, dirigente della Jihad islamica, che mi ricevere in un tenebroso edificio della città di Gaza, in una stanza tappezzata di poster neri con frasi come «Allah è il più grande» e versetti del Corano, c'è un denominatore comune: sono entrambi credenti assoluti e intransigenti, dallo sguardo freddo, che per ogni problema hanno una risposta semplice e categorica.

In Palestina, la Jihad islamica ha un seguito di non più del 7% (molto inferiore a quello dell'altro movimento terroristico islamista, Hamas, al quale si attribuisce il 28-30%) ma è su posizioni ancora più radicali, e ancor meno disposta a fare concessioni al realismo politico. Nafiz Azzam ha 47 anni, ma ne dimostra qualcuno in più. Veste modestamente e ha un'espressione dura. Solo quando il più piccolo dei suoi figli, che gli è stato intorno per tutta la durata della nostra conversazione, gli si arrampica sulle ginocchia e si mette a giocare con la sua barba e i suoi capelli, quello sguardo terribile si addolcisce.

Nato nel 1958 a Rafah, ha studiato medicina in Egitto con Fathi al-Shukaki, fondatore del movimento. Nel 1981 è stato catturato e deportato a Gaza. E' rimasto otto anni in un carcere israeliano, dove gli hanno spezzato una mano. Ma non hanno piegato il suo spirito. Ha organizzato scioperi, mobilitato i suoi compagni. Nel 1994 si è sposato, ed è padre di sei figli, cinque maschi e una femmina. «Non abbiamo nulla contro gli ebrei», mi assicura. «Nel Corano, Dio esorta i musulmani a essere generosi con chi non è credente. Ma cosa vengono a fare qui, sulla nostra terra? Gli israeliani hanno importato un milione di russi, e hanno dato loro le nostre case, i nostri villaggi. Tutti sanno che almeno metà di questi immigrati non sono neppure ebrei. E intanto noi palestinesi viviamo rinchiusi nei reticolati, costretti e chiedere un permesso per uscire anche solo per qualche ora da queste prigioni. Quale altro popolo sarebbe disposto a tollerare una cosa simile?»

Parla molto velocemente, guardando nel vuoto, come se recitasse. Il mio interprete fatica a seguirlo. «Il ritiro degli occupanti da Gaza è un fatto positivo», aggiunge «ma è solo un punto di partenza. Non se ne sono andati per loro volontà, ma costretti dalle lotte e dai sacrifici dei palestinesi. Ora però il nostro primo problema è un altro: quello della pace e della collaborazione tra noi palestinesi. Le discordie interne sono un regalo al nemico. Solo se saremo uniti potremo sconfiggere Israele». Quando gli faccio notare che l'immagine della Jihad islamica nel mondo è molto negativa a causa degli attentati suicidi, mi risponde con impazienza: «Le azioni dei nostri martiri sono una risposta alle stragi che Israele commette contro i nostri bambini, le donne, gli anziani. Noi abbiamo proposto la cessazione delle nostre azioni, purché anche loro facciano altrettanto. Ma non ci hanno neppure risposto». Quando gli dico di aver parlato, a Gaza, a Ramallah e a Hebron, con vari palestinesi che vedono la soluzione del problema in uno Stato laico binazionale, ove ebrei e musulmani possano convivere e mescolarsi, mi getta uno sguardo compassionevole, come si fa con un ritardato mentale. «La Palestina sarà una repubblica islamica, dove i credenti di altre religioni, ebrei o cristiani, saranno tollerati, ma a condizione che accettino di vivere secondo i precetti del Corano».

Il fatto che i combattenti della Jihad non abbiano la minima intenzione di rinunciare alle loro armi mi è stato confermato nel modo più eclatante pochi giorni dopo, quando ho assistito, su uno spiazzo alla periferia della città di Gaza, a una sorta di parata militare dei Comitati di Resistenza popolare. Lo spettacolo, un'apoteosi esaltata della guerra e del terrore, era anche una dimostrazione della totale irresponsabilità degli organizzatori. I combattenti, eccitati da canti bellicosi, frenetiche lodi ad Allah e versi del Corano diffusi tra la folla da assordanti microfoni scaricano fucili, pistole, lanciagranate e missili su bersagli di cartone raffiguranti bandiere israeliane; e in mezzo agli spari centinaia di ragazzini e bambini, alcuni appena in grado di reggersi in piedi, scorrazzano beatamente. Non riesco a spiegarmi come queste grottesche, insensate esibizioni possano concludersi senza lasciare a terra morti e feriti. E quindi non mi stupisco affatto quando leggo sui giornali, qualche giorno dopo la mia partenza da Israele, la notizie di un gravissimo incidente avvenuto durante un'analoga esibizione, organizzata da Hamas nel campo profughi di Yabalia, dove un camion carico di esplosivo è saltato in aria. Hanno perso la vita tutti i militanti a bordo e molti dei bambini che giocavano intorno all'automezzo. Come se non bastassero le bombe che Israele lancia di tanto in tanto sulle città palestinesi, per rivalersi degli atti terroristici sulla popolazione civile, i fanatici islamisti aggiungono il loro granello di sabbia al clima selvaggio che colpisce le donne e gli uomini più umili: nascondono armi e esplosivi nelle case, o si abbandonano a esibizioni belliciste che alla minima disattenzione possono trasformarsi in tragedie.

In mezzo a quel frastuono infernale sono riuscito a scambiare qualche parola con un giornalista della televisione palestinese, disgustato quanto me da quello spettacolo. «Questi qui», mi ha detto indicandomi gli uomini mascherati con i fucili «saranno il nostro più grosso problema, quando avremo finalmente raggiunto la libertà. Come può funzionare una società democratica con fazioni di gente armata che non sa fare altro che la guerra?».

Mentre assistevo a quello spettacolo mi sono reso conto improvvisamente che tra i mille o duemila credenti assoluti che mi circondavano sparando qua e là non c'era una sola donna. Con l'unica eccezione di mia figlia che scattava foto, saltando in mezzo a quella baraonda. Allarmato, ho avvertito il suo fidanzato: «Stefano, guarda che qui Morgana è l'unica donna». «E io l'unico ebreo», mi ha risposto per consolarmi.
Annotazioni − Articolo pubblicato il 10/10/2005 su "la Repubblica". Traduzione di Elisabetta Horvat.

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